Esclusiva

Marzo 29 2025.
 
Ultimo aggiornamento: Aprile 3 2025
Inferno Monacale un libro femminista ante litteram

Il manoscritto della monaca di clausura Arcangela Tarabotti attacca il governo di Venezia che conduceva la sua politica a spese delle donne

Tutti abbiamo letto i promessi sposi al liceo e ricordiamo i cattivi del libro: Don Rodrigo, Don Abbondio, l’Innominato e persino la monaca di Monza, Gertrude la malvagia che uccide una conversa e rapisce Lucia. Ma lei è davvero così? Dopotutto anche Manzoni la chiama «sventurata», quasi a volerla giustificare e per farci capire il perché, ci viene in aiuto Arcangela Tarabotti, monaca di clausura della prima metà del Seicento, il cui manoscritto “Inferno Monacale” è tornato da poco in libreria, curato da Meredith K. Ray, Elissa B. Weaver e Lynn Lara Westwater, le più accreditate studiose dell’autrice a livello mondiale. 

Arcangela, donna brillante e colta, entrò contro la sua volontà in un convento benedettino a Venezia a tredici anni – così come Gertrude – e rimase fino alla fine dei suoi giorni in quella «prigione»,come la definiva lei stessa. Tarabotti conosceva i classici, lesse Dante, Ariosto e anche i libri che erano proibiti in convento, come Machiavelli, grazie a stratagemmi e accademici che la ammiravano da tutta Italia e Francia. E comincio a scrivere anche lei. La prima opera pubblicata, “Tirannia Paterna”, racconta della sua monacazione forzata, una riflessione che trova direttamente sbocco in “Inferno Monacale” perché così come lei, tante altre erano le monacate controvoglia. 

Quest’ultimo manoscritto fa parte di una trilogia a emulazione della Commedia dantesca, a cui appartengono anche “Purgatorio Monacale” e “Paradiso Monacale”, in cui sono rappresentate le attività artistiche che erano permesse in convento e la felicità delle donne che davvero avevano la vocazione e avevano scelto quella vita di loro spontanea volontà.

Per tutte le altre, però, era un inferno, perché da questa imposizione veniva tolto loro il libero arbitrio. Chi lo possiede può scegliere tra il bene e il male, dirà duecento anni dopo Manzoni, influenzato dal giansenismo, ma le monache come Arcangela, essendone state private, non possono scegliere e compiono infatti del male alle altre monache e alle loro sorelle d’origine. È stata la privazione del libero arbitrio a «corrompere il loro animo» scrive Arcangela, a riempirle di invidia per quelle che sono fuori e possono sposarsi, mentre loro sono «sepolte prima di essere morte». Nelle sue lettere Arcangela stessa scriverà che a convolare a nozze sono spesso le sorelle «ultime d’età e spesso di merito», lei che aveva visto sposare tutte le sue sorelle minori, ma che era l’unica brillante e capace di leggere e scrivere.

Tanto la femmina, quanto il maschio, nacquero liberi, portando seco, come doni preziosi di Dio, l’inestimabile tesoro del libero arbitrio. La donna non è pertanto di minor stima di voi, se non perché tale l’avete ridotta ad essere con le vostre superbe stratageme.

La colpa per Tarabotti non sta quindi nella malvagità delle donne. In questo senso “Inferno Monacale” può essere definito un «libro femminista ante litteram» specifica Marina Caffiero, professoressa onoraria di Storia moderna dell’Università La Sapienza. Per Caffiero l’uso del termine femminista da parte di noi del ventunesimo secolo è un uso politico, però, ci rende chiara l’idea di una difesa del genere femminile che Tarabotti fa sia nei confronti dei soprusi dei padri, sia contro quei trattati maschilisti e misogini del Seicento che rappresentavano le donne come «senza animo». Nella difesa del genere Arcangela non è un caso isolato, come lei anche le autrici Lucrezia Marinella e Moderata Fonte per limitarci a Venezia, ma secondo due delle curatrici, Meredith Ray e Lynn Lara Weister, la diversità di Tarabotti sta nel suo «stile diretto e forte». Al contrario delle altre due «che compiono dei ragionamenti più astratti nelle loro opere e rispondono agli attacchi con discorsi teorici e pacati e a livello accademico», Tarabotti, invece, risponde agli stessi «arrabbiandosi e difendendo con vigore i diritti delle donne da chi voleva controllarle», con anche una «punta di umorismo, nei suoi scritti che ci porta a pensare che fosse davvero una persona incredibile». 

E non solo la sua è un’opera di difesa delle donne dal controllo e dagli attacchi misogini, ma è anche un’opera pienamente politica. Sempre nelle sue lettere scriverà «so che la materia monacale è scabrosa, ma non pericolosa per la religione, lo è per la politica». Aveva infatti compreso che la ragion di stato della Repubblica di Venezia coincideva con quella di suo padre e di tutti quelli delle altre monache.  Incentivando la monacazione forzata la Serenissima metteva di fatto in pratica un controllo delle nascite sui ceti alti della popolazione e sulla ricchezza che questi portavano allo stato. Infatti, per entrare in convento la ragazza doveva essere accompagnata da una dote, ma era più bassa di quella necessaria al matrimonio. Motivo per cui spesso erano destinate alla monacazione le sorelle maggiori, «in modo da racimolare nel tempo delle doti più cospicue per le sorelle minori che andavano in sposa». 

Criticare la monacazione forzata era quindi un attacco al governo, così come le sue richieste per una moderazione del lusso, una divisione egualitaria dell’eredità tra maschi e femmine, l’ingresso delle donne nel Senato della città e soprattutto l’abbassamento della dote matrimoniale per impedire che il controllo delle ricchezze avvenisse sulla pelle delle figlie.

quelli che per sola avarizia e ambizione dedicano, prima che nate, le loro innocentissime viscere all’inferno de’ viventi, perché tali sono i chiostri religiosi alle monache sforzate.

“Inferno Monacale” però rimase nascosto in un cassetto per tutta la sua vita, Tarabotti temeva di essere fraintesa e che la sua critica politica fosse scambiata per un attacco alle donne nelle descrizioni dei loro comportamenti all’interno del monastero. Fu la professoressa Francesca Medioli che nel 1990 riuscì a pubblicarne una prima edizione in Italia, portando alla luce l’opera più importante di Arcangela Tarabotti