È tutto lì. In quel soffio d’acqua che ti separa dal traguardo. «Se ho remato per 1950 metri, perché mollare agli ultimi 50?». A sentir parlare Nicholas Kohl, canottiere azzurro con un quarto posto ai Giochi olimpici di Parigi, sembra tutto semplice. Occhialini da sole, forza nelle braccia e via, una palata dietro l’altra fino alla fine. «Questo sport mi ha insegnato a non mollare mai. Servono determinazione e senso del ritmo, in quel momento ti giochi tutto ciò per cui ti sei allenato», dice il ventiseienne.

Dentro la voce tranquilla con cui si racconta passano anni di allenamenti: sveglie all’alba, piogge sul lago, inverni lunghi e sogni ostinati. E pensare che il canottaggio nemmeno gli piaceva: «Avevo fatto una lezione di prova a scuola, ma non mi aveva colpito più di tanto. Poi mia mamma mi ha spinto a riprovare». Nella sua testa compare un’immagine: Nicholas, quindici anni dopo, seduto sul primo sedile dell’imbarcazione, unico italiano nella storia a diventare capovoga di Oxford nella Boat Race, storica sfida sul Tamigi contro l’Università di Cambridge. Un onore senza pari. «Per gli inglesi è come Wimbledon. Anche se abbiamo perso, essere parte di un evento così è stato bellissimo – ricorda – Da qui sono passati molti campioni olimpici». Si dimentica che anche lui lo è. Dopo una laurea in ingegneria ambientale alla Syracuse University, rinuncia al master in Inghilterra per prepararsi ai cinque cerchi di Parigi. «Un anno prima non ero nemmeno vicino all’essere in Nazionale italiana. Ricordo che appena arrivato mi guardavo intorno e pensavo: “Io sto davvero qui, con gli atleti più forti del mondo?”. È stata un’esperienza surreale».
La medaglia, sfiorata con il 4 senza azzurro, ha lasciato un po’ di amaro in bocca. «Brucia, certo, ma abbiamo costruito quella barca in poco tempo. Non abbiamo perso noi, sono gli altri che hanno vinto. È diverso. Sono comunque orgoglioso della stagione passata». E c’è da esserlo, soprattutto quando i risultati arrivano tra un esame e l’altro: «Studiare in America mi ha aiutato. C’è un sistema per cui lo sport è importante tanto quanto la preparazione culturale – spiega l’atleta – I regolamenti assicurano che ci sia il tempo per allenarsi, per i libri e per lo svago. In Italia sarebbe stato molto più difficile conciliare tutto».
Certe emozioni però, le vivi solo a casa. Nato in Svizzera, da mamma italiana e papà tedesco, è cresciuto a Varese e quello rimane il posto del cuore. «Il luogo più bello dove remare. Sul lago, circondato dalle Alpi. Lì ho vinto la Coppa del Mondo l’anno scorso, davanti alla mia famiglia. È un ricordo che porterò sempre con me».

Il contatto con la natura è il punto fermo del futuro. Al riutilizzo delle acque reflue in agricoltura ha dedicato la tesi del master in Water Science, perché “per cambiare bastano semplici azioni, tempo e pazienza”, come nel canottaggio. «Ai ragazzi che iniziano questo sport dico che i miglioramenti non arrivano in un giorno, ma tu continua a cercarli». È così che si costruisce un atleta, una palata alla volta.
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