Ci sono guerre che fanno rumore e guerre che si consumano nel silenzio. Le prime occupano titoli, dirette televisive, thread sui social. Le seconde sembrano accadere ai margini del mondo, come se fossero sospese in un altrove che non ci riguarda. Tra queste, il conflitto in Congo e quello in Yemen sono tra i più lunghi, cruenti e dimenticati del nostro tempo.
«Parlare di guerre silenti significa parlare di conflitti che, pur essendo drammatici in termini di morti, conseguenze umanitarie, sfruttamento delle risorse e implicazioni internazionali, non trovano spazio né nella narrativa dominante dei media né nell’agenda politica globale», spiega Massimo De Giuseppe, storico e presidente della Facoltà di Arti, moda e turismo presso la Libera università di lingue e comunicazione, IULM.
Secondo De Giuseppe, dietro questa invisibilità non c’è solo disattenzione, ma un vero e proprio «meccanismo selettivo dell’informazione e della memoria». Le guerre silenti, come quelle in Congo e in Yemen, coinvolgono potenze globali e interessi economici che non vogliono essere messi sotto i riflettori. «Spesso queste guerre sono frutto di dinamiche post-coloniali irrisolte, in cui le potenze straniere mantengono un ruolo attivo nella destabilizzazione di intere regioni per il controllo di risorse o per interessi geopolitici». Ed è proprio qui che il silenzio diventa complice: tacere, distogliere lo sguardo, permette a questi conflitti di continuare indisturbati.
Il caso del Congo è emblematico. Il Paese è al centro di uno dei conflitti più lunghi e devastanti dalla fine della Seconda guerra mondiale. Milioni di morti, violenze sistematiche, sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali. Eppure, la Repubblica Democratica del Congo raramente compare nelle rassegne stampa occidentali. «Il Congo è una guerra silente per eccellenza: un Paese martoriato da conflitti legati alle risorse minerarie, soprattutto il coltan, fondamentale per la produzione di smartphone, computer, batterie. Un vero e proprio paradosso della modernità: ciò che alimenta la nostra tecnologia quotidiana è frutto di un sistema di sfruttamento disumano», dice De Giuseppe.
La connessione tra guerra e consumo è inquietante: i minerali che estraiamo dal Congo sono parte integrante della nostra economia digitale. L’opinione pubblica occidentale fatica a riconoscere questo legame. «Esiste un’ipocrisia di fondo: siamo disposti a condannare le guerre ‘visibili’ quando ci vengono presentate con immagini scioccanti, ma tendiamo a ignorare quelle che si consumano nell’ombra, lontane dai nostri occhi e apparentemente scollegate dal nostro quotidiano».
Anche lo Yemen vive un conflitto devastante, definito dalle Nazioni Unite come la più grave crisi umanitaria in corso. Dal 2015, il Paese è al centro di una guerra tra ribelli Houthi e una coalizione guidata dall’Arabia Saudita, con il sostegno, diretto o indiretto, di Stati Uniti e altre potenze occidentali. «La guerra in Yemen non è solo un conflitto locale, ma un vero e proprio scacchiere geopolitico in cui si giocano equilibri tra potenze regionali e globali. Il problema è che, proprio per la sua complessità e per i soggetti coinvolti, diventa scomodo parlarne apertamente», afferma De Giuseppe.
Il paradosso yemenita è simile a quello congolese: una tragedia umanitaria di proporzioni enormi, che si consuma nell’indifferenza globale. «Abbiamo assistito a bombardamenti su civili, fame diffusa, epidemie, bambini che muoiono per mancanza di cure basilari. Eppure, la copertura mediatica è minima, sporadica, mai approfondita». Secondo De Giuseppe, la colpa è anche di un sistema informativo che privilegia la rapidità alla complessità. «Viviamo in una società che consuma notizie come prodotti usa e getta. Le guerre che non si prestano a narrazioni semplificate o immagini forti tendono a essere escluse».
Ma il silenzio mediatico ha conseguenze dirette anche sul piano politico. «Se un conflitto non esiste nell’opinione pubblica, non esiste neppure nell’agenda dei governi democratici. L’assenza di pressione da parte dei cittadini permette ai governi di non intervenire, o peggio, di continuare a vendere armi ai Paesi coinvolti». E qui si inserisce un altro nodo: il ruolo dell’industria bellica. «L’Italia, ad esempio, ha avuto rapporti commerciali con Paesi coinvolti in conflitti come quello yemenita. È difficile fare pressione quando c’è un interesse economico in gioco».
Ciò che colpisce nelle parole di De Giuseppe è la consapevolezza che queste guerre non sono “lontane” solo geograficamente. Lo sono anche culturalmente. «Le guerre in Africa o in Medio Oriente vengono spesso rappresentate come cicliche, tribali, inevitabili. Una visione profondamente colonialista, che le relega a un eterno presente di violenza, rendendole meno urgenti, meno reali». In questo senso, il silenzio non è solo omissione: è anche una costruzione culturale, un filtro ideologico che decide chi ha diritto a essere ascoltato e chi no.
Alla domanda su cosa si possa fare, De Giuseppe risponde con un invito alla responsabilità. «Il ruolo dell’informazione è centrale, ma serve anche una cittadinanza più attenta e consapevole. Bisogna educare all’ascolto, alla complessità, all’empatia verso le sofferenze degli altri, anche quando non ci toccano direttamente». È un compito difficile, ma non impossibile. «Le giovani generazioni, se ben formate, possono rompere questo silenzio. Possono usare i social media in modo intelligente, informarsi, fare pressione. La conoscenza è il primo passo per la giustizia».
In un mondo in cui la guerra sembra tornare ovunque, non possiamo permetterci di ignorare chi vive in guerra da sempre. Il Congo e lo Yemen non sono periferie del pianeta, ma specchi delle nostre contraddizioni. Se continuiamo a non parlarne, non solo tradiamo le vittime, ma perdiamo anche una parte della nostra umanità.
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