La rivoluzione è donna! Libertà, uguaglianza, aborto su richiesta! Questo è il grido di più di 500mila persone scese in strada nell’ottobre del 2020 a Varsavia. A 5 anni da allora, le donne polacche continuano a lottare. E le loro vite raccontano che potere e politica incidono sul corpo, un campo di battaglia. La storia del diritto all’aborto è un groviglio difficile da districare in una Nazione che ha conquistato la democrazia negli anni Novanta.
Nella Polonia filostalinista il diritto all’aborto è riconosciuto dal 1956 ma viene limitato nel 1993, quando il Paese scrive un nuovo capitolo dopo il crollo dell’Unione Sovietica (Urss). «Non è un paradosso se compreso nel contesto storico. Molti regimi socialisti dell’Europa centrale e orientale, inclusa la Polonia, lo legalizzarono prima delle democrazie occidentali. Ciò è radicato nella visione socialista secondo cui uomini e donne erano cittadini uguali, e lo Stato aveva la responsabilità di ridurre le disuguaglianze di genere, comprese quelle derivanti dai ruoli riproduttivi», spiega Dominika Tronina, esperta di sistemi politici dell’Europa dell’est. A detta della studiosa, la legge introdotta nel 1993 – definita come il “compromesso sull’aborto” – rifletteva un terreno politico intermedio tra posizioni opposte: non fu un consenso, ma un accordo politico volto a evitare sia un divieto totale che una piena liberalizzazione.
Dall’ottobre 2020 la situazione è peggiorata con un pronunciamento del Tribunale costituzionale, entrato in vigore nel gennaio 2021, che ha eliminato la malformazione del feto come motivazione legale per l’aborto. In Polonia la gravidanza può esser interrotta solo quando è il risultato di un crimine, come lo stupro e l’incesto, o quando rappresenta un pericolo per la salute o la vita della donna.
«Le donne sono costrette a portare avanti gravidanze contro la propria volontà o a cercare l’aborto fuori dal sistema, a volte rischiando la salute o la vita. Anche nei casi in cui l’aborto dovrebbe essere consentito, i medici talvolta si rifiutano di eseguirlo per timore di conseguenze legali o per convinzioni personali. Molte donne sono costrette a viaggiare all’estero per accedere alle cure, con costi elevati e difficoltà logistiche», racconta Miko Czerwinski, Responsabile della sezione campagne presso Amnesty International Poland.
La speranza che le cose potessero cambiare è emersa nel dicembre 2023 quando Donald Tusk è stato eletto primo ministro, rimpiazzando Mateusz Morawiecki. Sotto i governi del partito sovranista Diritto e Giustizia (Pis), giovani donne sono morte di setticemia perché i medici avevano timore di intervenire. Oggi il clima è migliore, ma la fiducia femminile verso Tusk è più flebile. Il passaggio da un governo di estrema destra, ostile all’aborto, a uno liberale ha deluso le aspettative e la legge in materia rimane una delle più restrittive dell’Unione europea. La polarizzazione della società civile si è accompagnata alla mobilitazione di giovani e donne, coloro che in massa hanno votato per Tusk due anni fa. Vari sono i motivi del mancato cambio di passo, dalla difficile coabitazione del premier con l’ex presidente della Repubblica Andrzej Duda, esponente del Pis, all’eterogeneità dei partiti al governo.
«Sebbene il governo sia spesso descritto come liberale, ciò è solo in parte vero. La coalizione è composta da tre alleanze politiche, ciascuna con una propria posizione: la Coalizione Civica, guidata da Tusk, ha fatto campagna per permettere l’aborto legale fino alla dodicesima settimana di gravidanza. Anche la Sinistra sostiene con forza la liberalizzazione, mentre la Terza Via, composta da Polska 2050 e dal Partito Popolare Polacco, ha assunto una posizione più cauta o persino conservatrice», afferma Tronina.
La vittoria alle elezioni presidenziali di Karol Nawrocki, appoggiato dall’estrema destra, contro il candidato liberale ed europeista Rafal Trzaskowski è un duro colpo per il movimento pro-aborto. Dopo Duda, Tusk dovrà fare i conti con un altro capo dello Stato che bloccherà la sua agenda di riforme e la restaurazione dello Stato di diritto.
«Disaccordi politici e la mancanza di una solida maggioranza parlamentare hanno impedito cambiamenti legali significativi. Sono state presentate proposte per depenalizzare l’aborto o ripristinare un accesso legale più ampio, ma non sono ancora state approvate», è il commento di Czerwinski. Amnesty International Poland lavora con organizzazioni come Aborcyjny Dream Team e Federa, che ricevono un numero elevato di richieste quotidiane su come ottenere pillole abortive in sicurezza, come viaggiare all’estero per ricevere cure e quali conseguenze si possono affrontare. «Molte donne sono spaventate e cercano sostegno. Chi aiuta ad accedere all’aborto, come [l’attivista, n.d.r.] Justyna Wydrzyńska, subisce molestie e problemi legali», aggiunge Czerwinski.
Il caso di Izabela, una donna di 30 anni morta per una sepsi nel settembre 2021, è diventato simbolo del costo umano delle restrizioni. «Il suo ultimo messaggio “Non possono fare nulla finché il feto è vivo” ha scioccato il Paese e alimentato le proteste», prosegue Czerwinski. «Alla ventiduesima settimana di gravidanza, fu ricoverata in ospedale dopo aver perso il liquido amniotico. I medici stabilirono che il feto non aveva possibilità di sopravvivenza, ma si rifiutarono di procedere con un aborto finché il battito cardiaco non cessò. Quando alla fine fu effettuato un taglio cesareo, era troppo tardi. Il suo caso evidenzia che sotto l’attuale normativa i dottori sono incerti su dove finiscano i diritti del feto e dove inizino quelli della donna», aggiunge Tronina.
Resta l’opposizione di figure come Karina Bosak, membro del Sejm – la Camera dei deputati polacca – e analista legale per Ordo Iuris, think thank cattolico ultraconservatore. Anche se esistono voci diverse, il peso della religione incide nella vita pubblica, soprattutto nel post-Urss: «Dopo la caduta del socialismo nel 1989, la Polonia ha intrapreso una transizione democratica durante la quale la Chiesa cattolica è diventata una forza morale e politica molto influente e ha sostenuto con forza il divieto dell’aborto come parte del ritorno ai valori “tradizionali”», conclude la professoressa.