Esclusiva

Giugno 17 2025
Le parole che definiscono il mondo tra diritti e storia

Nel suo nuovo saggio, Marcello Flores esplora il significato di termini come apartheid, genocidio e sionismo

«Se l’attenzione, la conoscenza e la diffusione dei principi dei diritti umani e della necessità della loro tutela si sono fatte più costanti e articolate che nel passato, questo non ha significato nella realtà un rafforzamento e una velocizzazione degli strumenti capaci di intervenire per porre fine alle violazioni e offrire riparazione alle vittime».

Le parole hanno una storia. Apartheid, Colonialismo, Crimini di guerra, Genocidio, Pogrom, Sionismo è l’ultimo saggio di Marcello Flores, pubblicato da Donzelli Editore. L’autore è uno storico e ha insegnato all’Università di Siena, dove ha diretto anche il master in Human Rights and Genocide Studies, e all’Università di Trieste. Tra i suoi libri più famosi: Il genocidio degli armeni (il Mulino, nuova ed. 2015), La forza del mito. La rivoluzione russa e il miraggio del socialismo (Feltrinelli, 2017), Perché la guerra scritto con Giovanni Gozzini (Laterza, 2024).

In un mondo attraversato da nuovi conflitti, disuguaglianze e forme di violenza apparentemente inarrestabili, la cultura dei diritti umani ha bisogno di un rinnovamento profondo, paragonabile a quello che seguì la fine della Seconda guerra mondiale. Ma perché ciò accada, è necessario tornare alle basi: le parole. La definizione accurata dei concetti è uno strumento essenziale per comprendere la realtà, formare coscienze critiche e difendere la democrazia.

Quando parliamo di apartheid, colonialismo, genocidio, crimini di guerra, pogrom o sionismo, siamo davvero consapevoli del peso storico e politico di questi termini? Comprenderne il significato non è un esercizio formale: il linguaggio modella la nostra visione del mondo, struttura l’esperienza e riflette valori, conoscenze e responsabilità.

«Le parole, o almeno quelle che abbiamo scelto, sono abbastanza complesse, hanno a loro volta una storia, si sono formate nel tempo. Usarle in modo riduttivo, richiamando solo un piccolo aspetto, è un modo di banalizzare la realtà. Prendiamo il “sionismo”: è usato in modi totalmente al di fuori del significato storico. La gente spesso non sa cosa sia davvero. È un termine che ha diverse letture, ipotesi, politiche e strategie che lo hanno accompagnato. Oggi, invece, “sionista” diventa una definizione per indicare il potere fascista nello Stato di Israele, ma è solo una collocazione», dice Flores.

Ad esempio, il termine “apartheid” «indica una discriminazione razziale tra gruppi diversi di cittadini di uno stesso Paese, che limita i diritti e impedisce di poter vivere, abitare, muoversi, utilizzare servizi pubblici negli stessi ambienti. È una parola afrikaaner (la lingua parlata dai boeri in Sud Africa) che vuol dire separatezza», si legge nel saggio dello scrittore.

Anche la definizione di “crimini di guerra” presente nel testo non lascia spazio a dubbi: «Sono quelli commessi contro persone protette (civili, prigionieri, feriti); contro beni protetti (ospedali, scuole, chiese, edifici artistici, il saccheggio di città); che usano strumenti di guerra vietati (gas, riduzione alla fame)».

O ancora il “pogrom” è «un attacco di massa contro una minoranza (religiosa, nazionale o etnica), come accaduto agli ebrei nell’impero russo tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo. La parola russa, che vuol dire “distruzione”, venne usata non tradotta in inglese e nelle altre lingue europee nel 1882, per indicare gli attacchi agli ebrei avvenuti nel 1881, a Elisavetgrad, Odessa e Varsavia», riporta il libro.

Attraverso un vocabolario essenziale ma ricco di spunti critici, Flores guida il lettore in un percorso di chiarificazione e approfondimento, invitando a maneggiare con attenzione termini spesso abusati o fraintesi. Il volume si collega ai grandi testi internazionali nati nel periodo postbellico – come la Dichiarazione universale dei diritti umani o le Convenzioni di Ginevra – che hanno segnato un momento rivoluzionario nella storia contemporanea: l’idea che esistano principi universali in grado di vincolare gli Stati e di superare confini culturali, religiosi o ideologici.

Ma che ne è oggi di quella rivoluzione? Perché, nonostante strumenti giuridici e istituzionali sempre più raffinati, assistiamo ancora a genocidi, alla crescita del razzismo e all’antisemitismo, perfino nel cuore dell’Europa? In un tempo in cui la protezione delle libertà fondamentali rischia di ridursi a pura retorica, diventa cruciale restituire forza e concretezza al linguaggio. Proprio perché «il ruolo dell’educazione e della libera informazione rimangono centrali e decisivi nel non permettere che il razzismo e l’antisemitismo conquistino seguaci, come lo è la partecipazione diretta o vicina alle organizzazioni non governative che sembrano le uniche ancora capaci di mobilitarsi contro le violazioni», riporta una parte di Le parole hanno una storia.

«Mi sembra che oggi manchi quella spinta che ha permesso agli uomini di avanzare nel tempo. A volte, in passato, questa accelerazione è venuta dalle istituzioni, come le Nazioni Unite. Altre volte è venuta da organizzazioni che si sono costruite negli anni, come Amnesty International. Adesso, però, è difficile capire da dove potrebbe partire un nuovo impulso. Dall’alto non sembra possibile: gli Stati e i vertici istituzionali sembrano intenzionati a ridurre il peso della cultura dei diritti umani, perché ciò fa comodo un po’ a tutti. Dal basso, invece, mi pare che ci sia solo la sopravvivenza di realtà organizzate, che fanno un lavoro encomiabile ma non hanno la forza di andare oltre o di mettere in discussione i paradigmi attuali. Forse bisogna sperare che, in altre parti del mondo – dove le libertà sono maggiormente calpestate – possa emergere qualcosa di nuovo, che abbia successo e che riesca ad attivare un nuovo meccanismo di diffusione su scala globale», conclude lo storico.