Un contratto può segnare la differenza tra il diritto ad avere un’occupazione e quello alla vita. Ma non per Satnam Singh: lui quel pezzo di carta non ce l’aveva. Dopo un incidente sul lavoro, il capo lo ha abbandonato con il braccio destro mozzato dentro una cassetta per raccogliere la frutta.
Il 17 giugno 2024 il bracciante indiano era stato portato d’urgenza all’ospedale San Camillo di Roma. Un macchinario agricolo avvolgi plastica gli aveva tranciato l’arto e fratturato entrambe le gambe mentre era al lavoro, senza alcun contratto, nell’azienda Lovato, nelle campagne in provincia di Latina. Trentasei ore dopo ha smesso di respirare.
Il titolare della cooperativa, senza chiamare il 118, lo ha trasportato sul furgone e lo ha lasciato davanti la sua abitazione davanti la casa dove abitavano Singh e la moglie. Ma dopo dodici mesi dalla morte del bracciante, cos’è cambiato? «Nulla. Oltre le promesse e gli impegni pubblicamente assunti, la verità è che non è stato fatto niente» scandisce Jean-René Bilongo, coordinatore dell’Osservatorio Placido Rizzotto, che cura il Rapporto agromafie e caporalato e ricopre il ruolo di responsabile Politiche migratorie della Federazione lavoratori agro industria (Flai-Cgil Nazionale).
Il settimo rapporto dell’Osservatorio dimostra che nei primi cinquanta giorni dalla morte di Singh, il governo, attraverso l’ispettorato del lavoro, ha condotto una serie di verifiche nelle aziende agricole e ha scoperto che ci sono state quattromila assunzioni. Non si tratta però di posti di lavoro in più, infatti, Bilongo osserva che «le persone lavoravano già in quei posti, ma lo facevano in nero. Per paura di futuri controlli e di possibili cause, le aziende hanno subito assunto». Inoltre, la relazione dice che circa il 60 per cento delle cooperative non è in regola e «questo è un dato che nessuno può contestare perché l’ha appurato il governo stesso».
Anche Jean Pierre Yvan Sagnet, scrittore, attivista camerunense e fondatore della rete No Cap, dice che dopo un anno la situazione «è peggiorata: le modalità di sfruttamento vanno dalla perdita della vita umana al lavoro nero e a tutte quelle forme di irregolarità che le aziende usano per sfruttare i loro dipendenti». Sagnet è arrivato in Italia nel 2008 per studiare Ingegneria delle telecomunicazioni al Politecnico di Torino, ma tre anni dopo si è spostato al sud, in Salento, a Nardò, per lavorare come raccoglitore di pomodori in una masseria. Lì ha dato inizio allo sciopero contro le cattive condizioni di lavoro. Le sue proteste e la morte della bracciante italiana Paola Clemente nelle campagne pugliesi di Andria il 13 luglio 2015 hanno portato all’introduzione del reato contro il caporalato.
La legge 199/2016, come riportato sul sito della Camera dei deputati, introduce «significative modifiche al quadro normativo penale prevedendo specifiche misure di supporto dei lavoratori stagionali in agricoltura». Ed è una norma «straordinaria – dice il coordinatore di Placido Rizzotto – nessun paese europeo ha qualcosa di simile: dal punto di vista della repressione non c’è nulla da eccepire, però il problema che riguarda l’agricoltura è nella prevenzione». Su questo concorda anche Sagnet: «Prima c’era un vuoto giuridico e normativo che non consentiva di arrestare i caporali che si macchiavano di questo tipo di reati, ma sarebbe illusorio pensare che la legge abbia risolto il problema».
I braccianti sono ai margini della società dal punto di vista giuridico, però molto spesso contribuiscono all’economia complessiva della società, ed è per questo che sono dei fantasmi, ma a metà. L’immagine che Bilongo richiama alla mente è quella del Covid-19 perché in quel periodo «abbiamo riservato due applausi: uno ai medici e agli infermieri e l’altro ai lavoratori della terra con le lacrime dell’allora ministra dell’Agricoltura Teresa Bellanova. Dopo un minuto, ce ne siamo tutti dimenticati. Il paese rifiuta di ammettere che c’è una realtà viva che contribuisce al suo benessere, ma che non ha nessun diritto».