Si chiama Mamo Mid, ma sui documenti c’è scritto Khalil Muhammad. «Quando sono nato il governo siriano ha impedito alla mia famiglia di registrarmi con un nome curdo». Fixer di professione, passa le giornate viaggiando tra città e villaggi, seguito dai giornalisti stranieri arrivati in Rojava, nel nord est della Siria. Dal 2012 la regione ha un’amministrazione democratica autonoma a maggioranza curda (Daanes), che sta trattando con Damasco per mettere fine alla guerra dopo quattordici anni.
«Vogliamo una pace che ci garantisca pieni diritti, l’uguaglianza del nostro popolo con gli arabi e il diritto all’autodeterminazione», dice Mamo. Non si fida del governo transitorio di Ahmad al-Shara, ex terrorista di Al Qaeda e leader dell’organizzazione islamista Hayat Tahrir al-Sham, che ha conquistato la capitale a dicembre 2024 mettendo fine al regime di Bashar al-Assad. Una vittoria raggiunta insieme ai ribelli del Syrian National Army, supportati dalla Turchia. «Nonostante il cessate il fuoco, la situazione può cambiare in qualsiasi momento. Se domani lasciassimo le armi, verremmo attaccati e uccisi tutti», prevede il fixer.

Intanto i droni turchi continuano a sorvolare il confine con il Rojava, ma i bombardamenti sono cessati. «È un segnale positivo e speriamo che sia una situazione permanente, non temporanea», ha detto Elham Ahmed, copresidente dell’ufficio per le relazioni estere della Daanes, lo scorso 16 aprile. Nelle settimane precedenti, era andata in scena una battaglia sulla Tishrin Dam, diga controllata dai curdi a novanta chilometri a est di Aleppo. Le Syrian Democratic Forces (Sdf), milizie dell’amministrazione del nord est della Siria supportate dagli Stati Uniti, avevano conquistato l’infrastruttura nel 2015, sottraendola agli jihadisti dello Stato Islamico.
Dopo l’ultimo assedio della Turchia alla diga, che ha un ruolo chiave nell’economia siriana, il governo di al-Sham ha raggiunto un accordo con l’amministrazione autonoma il 12 aprile. La Tishrin Dam rimarrà sotto il controllo civile curdo, con la creazione di una forza militare congiunta con Damasco per proteggere l’impianto. Un passo verso la riconciliazione, avviata il 10 marzo con il cessate il fuoco firmato dal presidente al-Sharaa e il comandante delle Sdf Mazloum Abdi. Il patto riconosce i diritti costituzionali della comunità curda e stabilisce la fusione delle strutture civili e militari del Rojava nell’apparato statale.

Le condizioni sembrano favorevoli, adesso che lo Stato turco ha raggiunto una tregua con il Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk). Dopo quarant’anni di guerra contro Ankara e 40mila morti, il Pkk ha deposto le armi e si è sciolto il 15 maggio, seguendo l’appello dal carcere del fondatore Abdullah Öcalan. Così la Daanes spera di non essere ostacolata dalla Turchia, mentre conduce le difficili trattative con il governo di transizione, resistendo alla volontà accentratrice di al-Shara.
«Crediamo che il progetto portato avanti in questi anni», afferma Jiyan Hisen, coordinatrice dell’organizzazione delle donne in Rojava Kongra Star, «possa estendersi a tutta la Siria, con tutti i suoi popoli ed etnie, che cercano la libertà e vogliono costruire un nuovo Paese decentralizzato, pluralista e democratico». L’attivista sogna che Damasco abbracci il modello multietnico e di parità di genere sperimentato nel nord est. L’amministrazione autonoma, infatti, comprende anche minoranze arabe, assire e cristiane. Dalla politica alla cultura, i ruoli al vertice delle istituzioni sono condivisi da due persone, un uomo e una donna. «Noi diciamo sempre che sono le donne a guidare questa rivoluzione», conclude Hisen, ricordando il ruolo delle combattenti curde dell’Unità di protezione delle donne nella lotta contro l’Isis.

«Avevo un’idea del Rojava incentrata sulla rivoluzione e il femminismo», dice il fotogiornalista francese Philippe Pernot, tornato il 23 aprile dal suo secondo viaggio in Siria. Lì ha scoperto una realtà complessa: «L’area è ancora abbastanza conservatrice, tra i politici c’è un problema di corruzione e l’amministrazione autonoma è più autoritaria rispetto al modello anarco-democratico che immaginiamo in Europa». Ma ha visto anche segnali di cambiamento, in una società «con maggiori libertà politiche, in cui l’Islam non è più centrale». Nei suoi reportage, Pernot racconta l’inquinamento da petrolio che sta avvelenando il territorio, aggravato dalle fuoriuscite di greggio dopo i bombardamenti turchi su pozzi e serbatoi. «Ho incontrato cittadini, istituzioni e infrastrutture provati dalla guerra», prosegue il giornalista, «ma c’è anche ottimismo. Nel nord est sanno di avere la capacità militare di difendersi se il nuovo governo attacca».
Nel resto del Paese, invece, le minoranze sono esposte alle violenze del governo e dei ribelli, proseguite dopo la caduta di Assad. Secondo l’Osservatorio siriano sui diritti umani, negli ultimi sei mesi sono morte 7670 persone. Il 75% erano civili, mentre almeno 2.130 sono vittime di esecuzioni sommarie e omicidi su base etnica «commessi in modi brutali», si legge nel report. Ad aprile i combattenti islamisti hanno ucciso dozzine di persone nei quartieri intorno a Damasco abitati dalla minoranza drusa. Due mesi prima, i gruppi estremisti alleati dell’esercito avevano ucciso 1.600 persone di fede alawita, sulla costa Mediterranea. Secondo l’Osservatorio, gli omicidi degli alawiti continuano con la complicità dell’esercito.
«C’è uno spiraglio per ricostruire la Siria, anche per il rinnovato interesse dei Paesi occidentali», commenta Alessia Chiriatti, ricercatrice dell’Istituto affari internazionali, «ma senza una riconciliazione dal basso è impossibile». Secondo dati anagrafici parziali riportati dall’organizzazione Minority Rights Group, circa il 74% della popolazione è musulmana sunnita, seguita da alawiti, sciiti e ismailiti (13%). I cristiani rappresentano il 10%, mentre i drusi sono il restante 3%. I curdi sono la principale minoranza etnica, ma nel mosaico si inseriscono palestinesi, iracheni, armeni, greci, assiri, circassi, mandei e turcomanni. «La Siria non è una sola, sono tante», conclude Chiriatti. Dopo quattordici anni di guerra, tenerle insieme è una grande sfida.
Leggi anche: Le mani di Israele sulla Cisgiordania