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Esclusiva

Marzo 3 2020
Tutto accade prima in Texas

Il Super Tuesday, l’endorsement di Buttigieg, Klobuchar e Beto O’Rourke a Joe Biden, che avvengono tutti e tre nel giro di un paio di notti a Dallas, nel cuore del Texas, una lente attraverso cui guardare queste elezioni

«Uno Stato in cui ogni essere vivente sembra sempre sul punto di morderti, colpirti, pungerti o spararti», nelle parole di Lawrence Wright, ma anche molto, molto di più. Nel suo “Dio salvi il Texas”, lo scrittore e firma del New Yorker prova a fornire un ritratto attendibile, con un punto chiave fisso nella mente: se si vuole capire dove andranno gli Stati Uniti bisogna capire da che parte va il Texas.  

Dallas, un piccolo palchetto, molti partecipanti armati di telefonini ad immortalare la scena, l’aria è densa di tensione, si sente che sta per accadere qualcosa di importante. «Il goal principale era ed è sempre stato quello di sconfiggere Donald Trump, non di far diventare me presidente, ed è in nome di quei valori che ho deciso di appoggiare la corsa alla presidenza di Joe Biden» con queste parole Pete Buttigieg, in maniche di camicia, ha deciso di ritirarsi dalla corsa.  

Poche ore dopo il suo endorsement è arrivato anche quello di Amy Klobuchar, la senatrice del Minnesota già rivelazione alle elezioni del New Hampshire, dove ottenne un ottimo terzo piazzamento. Sempre a Dallas è arrivato anche l’appoggio del giovane astro nascente della politica texana Beto O’Rourke, che perse per un soffio nella sua corsa al Senato nel 2018 e che, per suggellare il patto, ha pensato di portato fuori a cena in mezzo ai flash di un affollato Whataburger di Dallas l’ex vice di Barack Obama.  

Il Lone Star State negli ultimi anni è cambiato molto, fino a diventare una specie di America in miniatura: è meno conservatore di un tempo, è il centro di molte novità della politica statunitense e ha un’identità così marcata per quanto sfuggente che, osservandola con un occhio attento, permette di capire qualcosa su chi sono gli americani, e soprattutto su chi potrebbero essere in futuro. 

L’Economist in una recente copertina dal titolo Texafornia Dreaming aveva iniziato a sottolineare l’importanza dei due stati del Sud per il futuro dei democratici e della stessa America. Il fatto è che se della California abbiamo un’idea più concreta, materializzata sotto forma di anni e anni di pellicole hollywoodiane e di estetica dorata del Golden State, del Texas quello che spesso arriva puzza di stereotipo. Uno stereotipo fatto di cowboys, ranch sterminati, machismo – con tutte le squadre sportive del Paese che portano nomi come RangersRocketsMavericks e non certo Blue Jays o Dolphins – e scarso rispetto per le imposizioni delle autorità federali.  

Ed effettivamente ci sono, in Texas, tutte queste cose. Ma c’è anche molto altro. Al contrario degli stati dei grandi laghi, del Michigan su tutti, l’economia del Lone Star State si è saputa rinnovare moltissimo nel corso degli anni: oggi continua a crescere, ha saputo diversificare e, per evitare un caso-Venezuela bis, l’industria del petrolio, un tempo indispensabile per l’economia locale, oggi pesa sempre meno. Il Paese negli anni è arrivato a non avere nulla da invidiare in termini di industria tecnologica anche a confronto con la California. Come è stato possibile?  

Il Texas, è uno stato americano dalla storia incredibile, l’unico stato già indipendente prima della stessa dichiarazione di indipendenza, uno stato immenso, con i suoi 696.241 km², le migliaia di km di frontiere difficili da sorvegliare e i suoi due fusi orari. È uno stato che si porta dietro delle origini pesanti, da sempre schierato dalla parte dei confederati, e con delle origini macchiate dall’ombra lunga del razzismo. Nel 1845, già economicamente fallita, la neonata Repubblica del Texas accettò – seppur controvoglia – l’annessione agli Stati Uniti. L’unica alternativa era un salvataggio da parte della corona inglese, che avrebbe preservato l’indipendenza del Paese ma avrebbe richiesto il passaggio a un sistema di lavoro salariato e l’abolizione della schiavitù. Il Texas, a questo bivio e ad altri, ha scelto la schiavitù ogni singola volta. 

Oggi il peso delle minoranze si fa sempre più determinante, e per il Texas è quella latina ad avere la preponderanza. Riconoscendo la necessità di maggiori sforzi per corteggiare questa comunità, tutti si sono dati da fare. Biden ha intensificato i dibattiti nel Golden e nel Lone Star State. E sabato, quattro ex-segretari di gabinetto delle amministrazioni Clinton e Obama hanno pubblicato una lettera su La Opinion, il più grande quotidiano in lingua spagnola di Los Angeles, esortando i loro “fratelli e sorelle latini” a votare per Biden e sostenendo di essere certi – conoscendolo – «che Joe stia correndo per ripristinare il sogno americano».  

Tutto accade prima in Texas
Componenti delle minoranze etniche nei vari Stati al voto – Washington Post

Ma non è il solo ad aver concentrato i suoi sforzi in questa direzione. L’ex sindaco di New York, Michael Bloomberg, ha versato una cifra da record nella pubblicità in lingua spagnola in Texas. La campagna del tycoon newyorchese si è concentrata in particolare sulla ricerca di sponsorizzazioni locali da regioni fortemente latine e sulla partecipazione di quei leader all’adagio comune “Ganamos Con Mike”, vinciamo con Mike. Lo sa fin troppo bene anche tìo Bernie, com’è noto tra la popolazione ispanica il candidato progressista Bernie Sanders, che ha potuto capire già dagli esiti del voto in Nevada quale sia l’importanza della comunità latina nel comporre il suo consenso elettorale.  

Il voto di questo Super Tuesday sarà fondamentale, verranno assegnati i 2/3 della quota che serve ad ottenere la nomination alla convention democratica di Milwaukee.  Il Texas, con i suoi 228 delegati in palio, è secondo solo alla California per importanza tra i 14 stati al voto, cioè Alabama, Arkansas, Colorado, Maine, Massachusetts, Minnesota, North Carolina, Oklahoma, Tennessee, Utah, Vermont, e Virginia, più le Samoa Americane.

Nel 2016 Hillary Clinton ha perso in Texas alle ultime elezioni, ma andando comunque meglio di qualunque altro candidato Democratico da vent’anni a questa parte. Per trovare un candidato dell’asinello capace di ribaltare la situazione bisogna tornare a Carter, era il 1976. Capire cosa succede in Texas può essere utile per capire cosa succederà ai Repubblicani e alla stessa amministrazione Trump: in Texas ci sono i conservatori di ferro, ma anche molti giovani elettori, magari figli delle minoranze ispaniche che hanno già fatto diventare politicamente più moderato il Sud dello Stato, e che crescono ogni anno di più.  

Nelle parole di Wendy Davis, candidata democratica al ruolo di governatrice nel 2014, «il Texas non è uno stato rosso, è uno stato blu di gente che non vota», con riferimento alle cromie simbolo dei due partiti, con il rosso colore dei repubblicani, il blu quello dei democratici. Se gli ispanici votassero in Texas al ritmo in cui votano in California, lo stato sarebbe già democratico da un pezzo. Le autorità statali questo lo sanno bene, e infatti come molti altri stati storicamente conservatori anche il Texas non è nuovo ad escamotages di vario tipo per frenare l’avanzata e la partecipazione di questo segmento dell’elettorato, e come riportato dal Guardian, sembra che questa tradizione stia proseguendo tutt’ora.  

È lo stato di confine per eccellenza, con le sue migliaia e migliaia di km di frontiera con il Messico. Lo stato del “muro”: al centro della più famosa proposta di Trump in campagna elettorale. Un Paese che oscilla in continuazione tra il reale e la proiezione che ognuno può farsi su di esso. Hollywood ha sempre adorato il Texas: una vera e propria arena per l’anima su cui proiettare le proprie paure, le proprie aspirazioni, i propri desideri.  

Uno Stato precursore anche nel cinema, soprattutto per quell’estetica Far-West in cui tutto è sabbia, terra rossa e lande piattissime, tirate come una tortilla. Estetica talmente malleabile da essere fluida: quando “siamo” in Texas il film può anche essere girato nella Monument Valley nello Utah come in Ombre rosse Sentieri selvaggi dove cavalchiamo assieme a John Wayne, nessuno si lamenta. Poi ad un certo punto, basta film sui pistoleri: la perdita dell’innocenza di un Paese intero avviene qui, in quel terribile 22 novembre del 1963, sempre a Dallas, con l’assassinio di John Fitzgerald Kennedy. Da Lyndon Johnson, passando per il clan-Bush fino a Beyoncé, via via si fa sempre più strada una certezza: ogni cosa accade prima in Texas. 
 

Illustrazione di apertura: A Texas illustrated map – © David Danz for Lawrence Wright