Il Covid-19 colpisce gli uomini più delle donne. Il differente tasso di mortalità, già osservato in Cina e confermato in Europa, è un dato statistico rilevante: 70% contro il 30%. Quale è il motivo?
Da mesi il dibattito all’interno della comunità scientifica è aperto. Ormoni, genetica e stile di vita. Questi i settori più approfonditi. Nonostante le diverse pubblicazioni, le cause certe non sono ancora conosciute.
Diversi studi hanno dimostrato che il genere femminile presenta un sistema immunitario più forte, in entrambe le sue due componenti, innata e adattativa, che lo rende più resistente alle infezioni.
La risposta innata è la prima linea difensiva dell’organismo, i cui meccanismi sono preesistenti al contatto con gli agenti patogeni. Quella adattativa, invece, comprende l’insieme delle risposte specifiche attivate verso il microrganismo.
Il vantaggio immunologico ha anche un riscontro negativo: è verosimile che l’eccessivo stato di attivazione delle difese sia fra le cause di sviluppo delle malattie autoimmuni, che hanno un’incidenza maggiore nelle donne. Questi quadri patologici sono caratterizzati da una disfunzione che induce l’organismo ad attaccare i propri tessuti.
Per spiegare questa minor suscettibilità a Covid-19, l’attenzione si è spostata sul recettore ACE-2 (enzima di conversione dell’angiotensina 2), la “porta di ingresso” di questo Coronavirus e anche di altri agenti virali responsabili di epidemie nel passato. Si tratta di un enzima proteico. Gioca un ruolo chiave nel sistema renina-angiotensina-aldosterone (SRAA), meccanismo ormonale che è il principale regolatore dell’escrezione renale di sale e acqua, del volume plasmatico circolante e della pressione sanguigna.
L’ACE-2 si trova sulla membrana (superficie esterna) delle cellule del polmone, ma anche delle arterie, del cuore, del rene e dell’intestino. Il virus, legandosi al recettore, ne favorisce l’internalizzazione nella cellula ospite.
La mortalità da SARS-CoV-2 è dovuta alla polmonite legata all’infezione, che comporta una sindrome da distress respiratorio acuto (ARDS), un tipo di insufficienza respiratoria con accumulo di liquido nei polmoni e una grave riduzione di ossigeno nel sangue. In teoria, una maggior presenza di ACE-2 sulla superficie delle vie aeree dovrebbe favorire la diffusione del Coronavirus e associarsi a una prognosi peggiore. In realtà, diversi studi scientifici hanno dimostrato che la proteina svolge un’importante funzione protettiva: nelle patologie di origine virale e batterica una ridotta espressione di ACE-2 sulle membrane cellulari si associa a una grave infiammazione polmonare e a un quadro respiratorio critico.
Molti microrganismi riducono la riserva di enzima attraverso componenti della loro struttura. Grazie a lavori di biologia molecolare, sono stati approfonditi quei meccanismi che portano alla ridotta espressione di ACE-2 e quindi a una sintomatologia peggiore: la sua espressione così si riduce.
Non bisogna concentrarsi sul numero di particelle virali che entrano in contatto con le cellule polmonari. Occorre considerare il danno indotto dall’infezione. La sua entità sarebbe inversamente proporzionale alla densità di ACE-2. Infatti l’enzima sarebbe in grado di proteggere il polmone da tutti gli aspetti negativi del processo infiammatorio, cioè quelle modificazioni tissutali che compromettono lo scambio dei gas. Lo farebbe attraverso il suo prodotto, l’angiotensina 1-7, che ha un’azione favorevole sull’endotelio polmonare con effetti anti-ossidanti e anti-infiammatori.
Sembra inoltre che gli estrogeni, i principali ormoni sessuali femminili, possano favorire una maggior espressione del recettore ACE-2 sulle membrane cellulari. Ciò spiegherebbe la minor suscettibilità delle donne a Covid-19.
Se questa ipotesi venisse confermata, si aprirebbero importanti scenari terapeutici per individuare categorie di popolazione più a rischio. In questa direzione la ricerca deve compiere uno sforzo ancora più grande, per decifrare tutti gli aspetti patogenetici della malattia.
Non sono solo le differenze biologiche ma anche gli stili di vita diversi che possono svolgere un ruolo significativo nel diseguale tasso di mortalità per la malattia respiratoria.
La segnalazione di dati disaggregati per sesso sulle epidemie è stata richiesta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità dal 2007, ma molte nazioni non riescono a fornirli.
Nella maggior parte dei paesi, ad esempio, gli uomini fumano tabacco e bevono alcolici a tassi molto più alti rispetto alle donne. La Cina ha la più grande popolazione di tabagisti al mondo, con circa 316 milioni di fumatori adulti. Oltre il 50% degli uomini cinesi fuma, mentre meno del 3% delle donne ha questa abitudine, secondo il Centro cinese per il controllo e la prevenzione delle malattie. In Italia 7 milioni di uomini fumano rispetto ai 4,5 milioni di donne, secondo i dati del 2020 pubblicati dall’Istituto Superiore di Sanità. In letteratura scientifica sono stati pubblicati studi sull’influenza del fumo nell’evoluzione della malattia, ma non evidenziano un nesso causale certo.
Emiliana De Blasio, professoressa di Sociologia della Comunicazione, Open Government e Gender Politics alla Luiss Guido Carli, non ha dubbi: «Le donne sono più brave a reggere lo stress e questo probabilmente perché, a causa delle contingenze storiche e sociali, ci hanno avuto a che fare di più. Le abitudini di vita si rispecchiano nella risposta delle donne al virus.
Alla risposta più positiva dal punto di vista immunitario, si accompagna quella emotiva. I ruoli sociali che le donne introiettano, attraverso stereotipi da combattere, potrebbero portarle a rispettare meglio le regole. Anche la “donna ligia” è infatti uno stereotipo sociale.
E sempre una convenzione potrebbe aiutarci a capire il motivo per cui le donne fumano meno degli uomini: sarebbero più attente ai sintomi del proprio corpo e quindi agli effetti negativi del fumo».
Ma anche un altro aspetto riguarda le donne. All’emergenza sanitaria segue quella economica e guardando i dati riguardo gli effetti delle epidemie sul mondo del lavoro, De Blasio afferma che «le donne potrebbero pagare un prezzo, anche se non è detto che perdano l’occupazione, dato che nel welfare sono molto impegnate».
Il report del 2007 dell’Organizzazione Mondiale della Sanità sulle professioni sanitarie di tutto il mondo, infatti, stima che il 70% dei lavori di assistenza sanitaria è svolto dalle donne, in particolare nel ruolo di infermiera. Nella provincia dell’Hubei, in Cina, epicentro originario del Coronavirus, circa il 90% dell’assistenza sanitaria è svolto da infermiere. In America la percentuale si aggira attorno al 78%, percentuale simile a quella italiana con l’80% (FNOPI). Il livello di esposizione di questa categoria professionale è considerato più alto rispetto a quello dei dottori perché, spiega al New York Times l’epidemiologo Celine Gounder, «sono coinvolte in azioni più intime nell’assistenza di un paziente: lo accudiscono sul lettino, prelevano il sangue, maneggiano i campioni».
«È questo il momento di parlare dei nodi concettuali sull’occupazione che emergeranno nel post-pandemia» conclude De Blasio. «Se i paesi con problemi simili si confronteranno, sia dal punto di vista economico sia quello sociale, riusciranno a trovare soluzioni funzionali e a uscirne limitando i danni».