Attenzione! Questo articolo è stato scritto più di un anno fa!
!
Esclusiva

Maggio 8 2020
Premio Pulitzer alla Reuters: quando una foto vale più di mille parole

Le immagini della rivolta di Hong Kong regalano all’agenzia di stampa britannica il prestigioso riconoscimento giornalistico per il secondo anno consecutivo

La realtà arriva prima agli occhi: vedere per credere.  
Un’immagine da sola sa parlare, urlare, sconvolgere l’attimo che è qui ed ora, ed è per sempre. La fotografia è come un’onda: travolge la superficie con l’impeto profondo che proviene dall’abisso. E quando l’onda arriva, le parole non servono più.

Nella natura dell’immagine non c’è però solo l’immediatezza e la carica espressiva: una donna schiacciata da uno scudo antisommossa della polizia cattura i nostri sensi, risveglia la nostra emotività, ma allo stesso tempo ci informa, ci dice cosa sta succedendo dall’altra parte del mondo, ci documenta come fiumi di parole non potrebbero mai fare.  
La fotografia è informazione. Per questo a partire dal 1968 tra le 21 categorie del Premio Pulitzer, la più ambita onorificenza per il giornalismo, rientra anche quella della miglior fotografia dell’ultim’ora (Pulitzer Prize for Breaking News Photography). Anche quest’anno, come il precedente, l’agenzia di stampa britannica Reuters è stata proclamata vincitrice dal comitato del premio statunitense «per fotografie ad ampio raggio e immagini illuminanti della situazione ad Hong Kong, mentre i cittadini protestavano contro la violazione delle loro libertà civili e difendevano l’autonomia della regione da parte del governo cinese».

«È un riconoscimento di per sé molto importante, che acquista ancora più valore per un’agenzia di stampa come la Reuters, generalmente vista come un organo che smista e distribuisce foto, e che invece dimostra ancora una volta di essere una squadra capace di fare informazione e di creare lavori stupefacenti». Questo il pensiero di Alessandra Mauro, Direttore editoriale di Contrasto, la più grande agenzia fotografica italiana. Pensiero confortato dalla storia del premio, che negli ultimi vent’anni è stato assegnato per ben 15 volte a staff di agenzie o di grandi testate, e solo in rari casi a singoli fotoreporter indipendenti: «La differenza la fanno i mezzi di cui un’agenzia può disporre e come li utilizza: Reuters o Associated Press (la prima agenzia di stampa internazionale con sede negli Stati Uniti) sono in grado di mobilitare risorse e uomini tali da raccontare un evento sotto ogni suo aspetto, attraverso sguardi differenti e molteplici, come è reso evidente dal reportage su Hong Kong. Scorro le immagini della rivolta, e mi trovo a osservarla dall’ultimo piano di un grattacielo, da dove la folla mi appare come un torrente in piena che sfocia in mille rivoli; passo a un nuovo scatto, ed eccomi catapultata proprio in mezzo a quella calca: mi ritrovo a fuggire da un poliziotto che quasi certamente al prossimo fotogramma mi catturerà; e infine scopro che la notte mi ha sorpreso, è calata su di me che sono ancora in strada, e la vista cerca luce tra i vicoli bui, guidata dai bagliori delle torce, intossicata dai fumi dei petardi. Quello che viene fuori è una narrazione in continuo movimento, è la capacità della fotografia, elevata all’ennesima potenza, di trasportarci con la mente in uno scorcio di mondo e di tempo a noi distante o addirittura irraggiungibile».

Vedere per credere: «Non c’è una foto che sia uguale ad un’altra, non ci sono ridondanze visive e neanche una riproposizione di uno stesso significato. L’osservatore non si abitua mai a quello che vede e può godere di un panorama organico su una vicenda vasta e complessa».  
Ed è attraverso questo lavoro che lo scatto diventa giornalismo, informa e smuove le coscienze delle persone, in un modo diverso dall’articolo scritto: «Ricordo le parole di un grande fotografo della Magnum Photos (storica agenzia fotografica fondata nel 1947 da Robert Capa ed Henri Cartier-Bresson) che sottolineava la differenza tra questi due modelli di informazione attraverso due esempi molto calzanti: la scoperta dell’America da parte di Colombo, e lo sbarco sulla Luna. Il primo evento ci è giunto documentato, in forma scritta, e ognuno di noi ha una sua idea più o meno vaga e fantasiosa di un intrepido navigatore genovese che mette piede sulle spiagge di una terra sconosciuta. L’allunaggio è un’immagine ben precisa, stampata nella mente e nella memoria collettiva: l’accadimento è quell’immagine, vera, precisa, incontrovertibile».  
Forse è proprio la capacità tipica della foto di mettere il pubblico di fronte ad una verità, per quanto superficiale e parziale, che rende questo strumento indispensabile per un’informazione più completa e soprattutto più espressiva ed immediata: «Ci sono foto che hanno scritto la Storia, nel senso che hanno inciso materialmente sul corso degli eventi. Nei miei ricordi si staglia limpido uno scatto da Premio Pulitzer di quasi cinquant’anni fa: era il 1972 e un giovane fotoreporter vietnamita della Associated Press, Nick Ut, catturò l’immagine di una bambina nuda, urlante e piangente, arsa dal napalm lungo una strada del villaggio di Trang Bang, poco distante da Ho Chi Minh (l’attuale Saigon). La foto, passata alla storia col nome di “Napalm Girl”, fu un terremoto che scosse l’opinione pubblica di tutto il mondo e che contribuì a far luce sulle atrocità di una guerra già aspramente contestata come quella del Vietnam. Mi chiedo quali parole sarebbero state in grado di trasmettere le emozioni che si provano ancora oggi nel contemplare quello scatto».

Premio Pulitzer alla Reuters: quando una foto vale più di mille parole
“Napalm Girl”, foto di Nick Ut

E poi c’è la vita di chi svolge questo mestiere, di quei narratori silenziosi alla costante ricerca dello scatto perfetto, abituati a dare del tu al pericolo, i fotoreporter: «È una professione avventurosa e affascinante, il fotografo corre spesso più rischi di un normale giornalista che può anche seguire le vicende a una distanza di sicurezza. Quello che dovremmo sempre chiederci quando osserviamo uno scatto è “dov’è il fotografo?”. Sembra una domanda banale, ma non dobbiamo dare per scontata la risposta: se l’immagine ci porta nel cuore di un incendio, se ci ritroviamo sdraiati sull’asfalto accanto a un manifestante insanguinato, se per poco non veniamo colpiti dalle schegge di una granata, è perché l’autore della foto si trovava esattamente lì, dove noi non vorremmo trovarci mai».  
Viene allora spontaneo chiedersi come si possa convivere con il pericolo di rimanere contusi, feriti o addirittura di morire: «Il senso del pericolo fa parte dell’equipaggiamento di un fotoreporter; è come la nostra normale percezione del caldo e del freddo, che ci impedisce di bruciarci o di congelare. È un istinto salvifico: il pericolo che corri ti aiuta a capire come muoverti e come portare a casa il servizio e la pelle».

Premio Pulitzer alla Reuters: quando una foto vale più di mille parole
Robert Capa, uno dei più famosi fotografi di guerra

Per chi conosce poco questo mondo e non smette mai di meravigliarsi di fronte alle rivelazioni o anche alle più lievi sfumature della realtà, offerte da ogni scatto, viene da chiedersi cosa conta di più perché un reportage fotografico vinca il Pulitzer: l’importanza dell’evento documentato, o la tecnica e l’espressività della foto?  
«Non esiste un istante che non sia degno di essere immortalato, se da esso si fa emergere un aspetto interessante. Trattandosi di un premio giornalistico è chiaro che l’occasione deve avere una sua rilevanza, ma la foto resta sempre il centro di tutto».

Perché non sempre pagine d’inchiostro valgono più di un’immagine. 
Perché a volte, come cantavano i Depeche Mode, “le parole non sono davvero necessarie”.