Attenzione! Questo articolo è stato scritto più di un anno fa!
!
Esclusiva

Maggio 22 2020.
 
Ultimo aggiornamento: Maggio 23 2020
«Non chiamatelo smart working»

Francesca Paci, inviata de La Stampa, racconta la sua nuova vita da smart worker: dall’assenza di stimoli alle difficoltà nel far conciliare la vita lavorativa con quella privata

Francesca parla al telefono ma la sua voce si sente a scatti. «Questo è uno dei problemi dello smart working», dice. Uno dei tanti che quotidianamente devono affrontare i lavoratori “agili” alle prese con il lavoro da casa nato come conseguenza del distanziamento sociale e «che di agile ha veramente poco». L’assenza di segnale non è l’unico problema di una giornata lavorativa trascorsa in casa: va sommata con la difficoltà nel conciliare la vita privata con quella lavorativa, a restare in casa nonostante la Fase 2, a sentirsi «una mosca dentro una bottiglia». Francesca Paci fa la giornalista, l’inviata, è una madre e rientrata a pieno titolo nelle prescrizioni sullo smart working del decreto Rilancio: sì al lavoro agile per i genitori con almeno un figlio di età inferiore ai 14 anni. Per loro la quarantena continua. 

La normativa sul lavoro “agile” prevede la possibilità di scegliere, in accordo con l’azienda, il proprio luogo di lavoro «senza precisi vincoli». Ma la situazione in cui gli smart workers sono stati catapultati, somiglia più ad una costrizione dettata dall’epidemia che ad una libera scelta fatta in nome delle flessibilità. «Io di “smart” non ci vedo proprio nulla – dice –  anzi, mi sento una mosca dentro una bottiglia: tutto quello che posso vedere, trovare e proporre si trova dietro allo schermo del Pc». Francesca prima del lockdown scriveva storie e reportage dall’estero. Ha seguito le manifestazioni in Algeria, le proteste di Hong Kong, da Kastanies, in Grecia,  ha raccontato i rifugiati che dalla Turchia cercavano di forzare il confine per arrivare in Europa. Ora passa le giornate davanti alla schermo del Pc, «surfando» – come dice lei – tra le pagine web in cerca di una storia da raccontare. «Per oggi ho diverse proposte da fare al giornale», in pole c’è  «un rapporto Unesco sulla chiusura dei musei come conseguenza del lockdwon, il 13% rischia di non riaprire mai più». Ma c’è anche l’Egitto, la Siria e Israele, da cui faceva la corrispondente. Notizie lette sui giornali, «soprattutto esteri visto il lavoro che faccio».

«La giornata inizia alle sei di mattina», spiega Francesca. «La trappola dello smart working ti spinge a rimanere in pigiama tutto il giorno». Comodità che a lungo andare si trasforma in zavorra. «Un’abitudine che finisce per massacrarti psicologicamente», spiega. «L’ho imparato quando lavoravo come corrispondente da Gerusalemme. La regola che mi ero data era quella di uscire tutte le mattine per andare a comprare i giornali invece di farmeli arrivare a casa». Già la lettura dei giornali, «perché il nostro mestiere non è solo quello di scrivere, serve anche leggere e fare proposte; proposte che in condizioni nomarli nascono anche da un rapporto umano con un’altra persona, da una semplice chiacchiera con un collega». Ma l’avvento della pandemia ha svuotato le redazioni come luogo di idee , «riducendo la comunicazione al semplice scambio di e-mail. Le videoconferenze in alcuni casi vanno bene e sono utili, ma purtroppo non riesco ad immaginarle come la normalità».

Mentre Francesca racconta l’inferno dello smart working, dalla cornetta si sente entrare la voce di sua figlia. «Devo lavorare e fare la mamma allo steso tempo – spiega – così la mia giornata prosegue su due binari». Il problema, infatti, non è solo quello del confinamento tra le mura domestiche, per le madri il lavoro da casa finisce per sovrapporsi con la vita privata e l’accudimento dei figli rimasti in casa con le scuole chiuse; tutte questioni che, fin troppo spesso, finiscono per rovesciarsi sulle spalle delle donne. «In tutta quesa situazione mi sento schiacciata», dice Francesca con tono esausto. «Per le donne il carico di lavoro viene triplicato. Mia figlia, essendo ancora piccola, non è autosufficiente e richiede un’assistenza costante per fare i compiti, collegarsi alla lezioni o per qualsiasi altra cosa. La mattina infatti mi metto accanto a lei con il mio computer e mentre lei fa i compiti io continuo a lavorare». Una si affaccia sul mondo di oggi, l’altra si prepara a quello di domani.

L’avvento del Coronavirus ha trasformato il classico lavoro d’ufficio in lavoro agile, un fenomeno già in crescita i cui numeri sono destinati a rimanere stabili finché non si verificherà un ritorno alla normalità. «In alcuni ambiti questa trasformazione può avere un senso, ma non so quanto, per un impiegato, ad esempio, possa essere facile alzarsi tutte le mattine e combattere con la sensazione di rimanere in pigiama invece di andare in ufficio». 

Più lavoratori significa strutture più grandi e più costose. Inoltre, il contratto che regola il lavoro agile, non prevede il rimborso delle utenze a carico del lavoratore, stessa cosa vale per la strumentazione come pc e scrivania. Non è escluso infatti che lo smart working possa subire un’ulteriore impennata a fronte di un oggettivo risparmio sulle strutture da parte delle aziende. «Quello che temo è che lo smart working possa essere vista come un’opportunità per abbassare i costi per tutte le aziende, comprese quelle editoriali».