Il decreto del 23 febbraio segna l’inizio dell’emergenza Covid-19. Di lì a breve le misure restrittive sarebbero state estese all’intero territorio nazionale, catapultando i lavoratori verso una nuova dimensione lavorativa. Lo smart working ora potrebbe prendere il posto del classico lavoro d’ufficio: le aziende risparmierebbero sulle strutture e – secondo un’indagine della Cgil – il 66% di coloro che hanno sperimentato il lavoro agile, ora sarebbero disposti a proseguirlo anche dopo l’emergenza. Un nuovo modo di lavorare «che a nostro giudizio non può essere lasciato esclusivamente nella libera determinazione dell’impresa, ma deve essere regolamentato attraverso la contrattazione, per poter dare a tutti e tutte possibilità di accesso in egual misura, senza discriminazioni». spiega Elena Lattuada, Segretaria Generale della Cgil Lombardia. Ma la frenesia con cui si è passati dall’ufficio allo studio di casa, non ha dato tempo a lavoratori e aziende di stipulare gli accordi a cui rimanda la normativa di riferimento, delegando così all’improvvisazione la gestione di una forma di lavoro poco diffusa prima che il Coronavirus modificasse le abitudini quotidiane.
Numeri in crescita
«Certamente l’emergenza sanitaria ha provocato una forte accelerazione nell’utilizzo del lavoro agile, che fino a quel momento, in modo particolare le imprese, avevano forti perplessità nel concedere, anche a fronte di richieste». Le regioni del Nord più colpite dal virus sono state le prime ad essere interessate dalle misure restrittive previste dal decreto del 23 febbraio. In Lombardia, a fine aprile, il 98% dei lavoratori della pubblica ammirazione era in regime di smart working, contro una media nazionale del 74%. Secondo la stime del sindacato, durante l’emergenza, i lavoratori in modalità agile sono passati da 500 mila e 8 milioni. Un fenomeno già in crescita secondo l’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano: già nel nel 2019 i lavoratori in modalità agile erano aumentati del 20% rispetto al 2018 toccando quota 570 mila. Un fenomeno che interessa il 58% delle grandi imprese e il 12% delle piccole e medie. Ora, nonostante l’allentamento delle prescrizioni anti-Covid, il Decreto Rilancio favorisce il lavoro da casa per «i genitori lavoratori dipendenti del settore privato che hanno almeno un figlio minore di anni 14». Lo smart working dunque continua «anche in assenza degli accordi individuali», si legge all’articolo 90. Il risultato è un rapporto di lavoro puntellato da zona d’ombra su cui la normativa di riferimento (n. 81 del 22 maggio 2017) non riesce a far luce.
Il diritto alla disconnessione
«A giudizio nostro non serve un contratto nazionale specifico», dice la Segretaria Cgil; semmai «il riconoscimento di diritti e tutele» da inserire nei contratti nazionali e aziendali. Tra questo c’è il cosiddetto diritto alla disconnessione, di cui si è iniziato a parlare come conseguenza della diffusione dello smart working. Essendo un tipologia che privilegia un approccio per obbiettivi, per il lavoratore non è previsto un orario di lavoro ben preciso, anche se – secondo la legge – questo non potrebbe comunque superare i limiti giornalieri o settimanali. Il perché lo spiega Raffaele Fabozzi, professore di diritto del lavoro alla Luiss Guido Carli. «Nel limite delle otto ore giornaliere, la prestazione è più indirizzata al raggiungimento di un risultato piuttosto che al rispetto dell’orario di lavoro. Il fatto che il lavoratore stia fuori dai locali aziendali lo rende meno controllabile, così il raggiungimento degli obbiettivi diventa l’unico modo per supervisionare l’attività lavorativa».
Quello alla disconnessione è un diritto «assolutamente necessario», secondo Elena Lattuada. «L’esperienza, anche recentemente rilevata da un questionario online svolto da Cgil, dimostra che la stragrande maggioranza delle persone che hanno risposto, hanno dichiarato un significativo allungamento degli orari di lavoro e una richiesta/offerta di disponibilità massima di connessione, che ha bisogno di essere regolamentato. Ovviamente questo porta con sé anche un incremento della produttività individuale e collettiva nel lavoro agile, che andrebbe riconosciuto anche economicamente». Gli smartphone sempre connessi consentono una reperibilità costante che, insieme all’assenza di un orario di lavoro rigido, potrebbe tradursi in una giornata lavorativa perennemente online e senza la possibilità di poter “staccare”. Una condizione che sbiadisce il confine tra vita la lavorativa e quella privata.
I costi a carico del lavoratore
«Sempre facendo riferimento all’indagine prima citata, molti e molte hanno sottolineato che l’impresa non ha fornito alle persone i mezzi fisici per lavorare». La legge di riferimento, infatti, non obbliga le imprese a fornire la strumentazione o le utenze per poter lavorare a distanza, come la connessione a internet. Per questo, secondo la Segretaria, è necessario «che le imprese forniscano i mezzi adeguati per lavorare» e «il riconoscimento generalizzato dei ticket o buoni pasto». Così le spese derivanti da utenze, strumenti e pause pranzo, in mancanza di un accordo e a causa dell’emergenza, sono passate dal bilancio dell’azienda al portafoglio del lavoratore, senza che venisse previsto il rimborso delle spese necessarie per connettersi da casa. «In genere sono a carico del datore, ma questo dipende dagli accordi stipulati», dice Fabozzi. «Ce ne sono altri invece in cui il datore di lavoro concede lo svolgimento dell’attività lavorativa in modalità agile purché non prevedano dei costi, facendo in modo che le spese siano a carico del lavoratore».
Le difficoltà delle donne
Il decreto Rilancio prevede il lavoro agile per i genitori con figli di età inferiore ai 14 anni. Se da un parte dunque lo smart working nasce come una necessità dettata dal distanziamento sociale, per le famiglie si traduce anche nella possibilità di accudire i figli rimasti in casa come conseguenza della chiusura delle scuole. In questa situazione, ancora una volta, i lavoratori si confrontano con la sovrapposizione tra vita lavorativa e vita privata. Spesso i tempi non coincidono e, sopratutto per le donne, questa situazione provoca un effettivo aumento del carico lavorativo causato della somma tra smart working e lavoro domestico. Un problema che «attiene alla divisione del “lavoro di cura” e ai carichi di lavoro familiari, che in modo particolare nel nostro paese non sono ancora redistribuiti tra i generi», sostiene Elena Lattuada. «Il lavoro agile, che certamente ha favorito la “conciliazione”, anche se lo strumento non ha questo come unico scopo, non ha redistribuito il carico di lavoro familiare, pesando di più sulle donne lavoratrici. A questo si aggiunge la altrettanto nota di disparità di trattamento economico, a parità di mansione, tra uomini e donne, che certamente il lavoro agile non ha modificato».
Le nuove sfide
Sono passati ormai 50 anni dall’approvazione dello Statuto dei Lavoratori, la legge varata nel lontano 1970 che tutela i diritti del lavoro dipendente. Inutile dire che nel frattempo il mondo è cambiato. La globalizzazione, le nuove tecnologie, l’avvento di internet; sfide che catapultano il sindacato in una nuova dimensione, dove stare al passo con i tempi è l’obbligo per garantire le tutele necessarie ai lavoratori 2.0: dagli smart workers emersi dal Covid, ai ciclofattorini governati dall’algoritmo delle piattaforme di consegna a domicilio. «Anche per questo la Cgil ha presentato una propria proposta di legge», dice Elena Lattuada. Il rifermento è al nuovo Statuto del Lavoratori proposto dal Segretario Generale Maurizio Landini. «Riteniamo cioè che oltre alla contrattazione che deve sempre più estendere la propria sfera di applicabilità non solo al mondo del lavoro dipendente, serva una cornice legislativa che ricomprenda tutti coloro che lavorano, a prescindere dalla modalità con cui lo fanno», compresi gli smart workers.