«Alex, ma i consigli de Fabrizio, te servono veramente?». Questa è la domanda che Fabrizio Di Somma, collaboratore tecnico della Nazionale italiana di Ciclismo Paralimpico, vorrebbe che rivolgessimo a Zanardi. Lui che dal 2010 segue gli atleti con disabilità nelle cinque categorie dell’handbike e nel tandem per non vedenti, si augura che l’ex pilota bolognese recuperi dal grave incidente dello scorso 19 giugno.
«Facciamo tutti il tifo, sono ore difficili. Le sue imprese hanno dato visibilità a tutto il movimento». Con un aneddoto racconta gli esordi ciclistici del campione emiliano. «Dieci anni fa eravamo a Segovia, 90 km a nord-ovest di Madrid, durante una tappa di Coppa del Mondo a cronometro. Seguivo Alex con l’ammiraglia. Mi sono accostato per incitarlo e valutare la sua posizione aerodinamica. Prima che potessi correggerlo, si è girato verso di me, chiedendomi ‘come sto andando?’. Mi ha fatto sobbalzare, un errore da vero principiante. In gare così brevi ogni secondo è determinante e un atteggiamento del genere può compromettere il risultato. Un atleta non dovrebbe avere né il tempo, né la voglia di parlare. In quel momento ho capito che aveva ampi margini di miglioramento. Negli anni successivi lo avrebbe dimostrato».
Fabrizio conosce bene il suo lavoro. Dall’età di dodici anni la bicicletta è la sua vita. La prima pedalata per caso, su consiglio di un’amica. Negli anni successivi gira l’Italia col sogno del professionismo. Sulla sua strada, fra i dilettanti, è in gruppo con Marco Pantani, Ivan Gotti, Gilberto Simoni. Cinque Giri d’Italia in tre. Nel ‘93 si dedica alla pista ed entra in Nazionale. Si dedica allo Stayer, disciplina ormai scomparsa. Nei velodromi corre in scia a motociclette speciali, fino a 80 km/h. Poi, nel ‘98, il suo destino cambia. Grazie a Mario Valentini, già suo allenatore e nuovo Commissario Tecnico per il coordinamento del Settore Paralimpico, si aprono le porte del Paraciclismo. Soprattutto nel tandem per persone ipovedenti, in squadra con l’atleta veneta Silvana Valente. Arrivano il titolo mondiale a Colorado Springs nel 1998 e due bronzi e un argento ai Giochi di Sidney due anni più tardi. Nel 2003 centra di nuovo l’iride nella specialità dell’inseguimento individuale, stavolta in coppia con Emanuele Bersini.
Nel 2010 un grave incidente stradale lo costringe ad abbandonare l’attività agonistica. «Trenta fratture, sette viti a livello della colonna vertebrale. Ho rischiato di perdere l’uso di una gamba e finire su una sedia a rotelle. Il rapporto con questi atleti mi ha dato la forza di non arrendermi. Da quel momento è iniziata una nuova fase. Sono diventato Collaboratore Tecnico della Nazionale. Alleno atleti veri e propri. Stampelle e carrozzine sono solo un modo per scavalcare le barriere quotidiane. Quando andiamo in trasferta, penso ‘devono riposare bene, altrimenti la gara è compromessa’. Quasi dimentico che alcuni hanno bisogno di due mani per girare la camomilla. Il vantaggio della Nazionale è trascorrere ventiquattr’ore con le persone e coglierne tutte le sfumature. A volte basta una telefonata per cambiare il loro umore e lo stato di forma. Subentra un rapporto che va oltre lo sport. Immaginate di dare consigli a persone che convivono con lesioni midollari da vent’anni, ma che sono autonome in tutto, si prendono cura dei figli, guidano la macchina. Cosa avrei da insegnare? Ma questo è il mio mestiere. Una crescita continua, come se fossi iscritto all’università da sempre».
Fabrizio, a cinquant’anni, studente lo è diventato davvero. Pochi giorni fa ha concluso il secondo anno della facoltà di Scienze motorie. Ha deciso di portare sui libri la sua esperienza. Quella passione che ogni volta lo emoziona di fronte alle imprese dei grandi campioni: «Sono contento che il Giro d’Italia si disputi a ottobre. Non vedo l’ora. Spero in una corsa emozionante e in un vincitore nuovo. Se devo fare un nome, dico Giulio Ciccone. Quel giovane abruzzese va forte, nei prossimi anni potrebbe farci divertire».
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