Attenzione! Questo articolo è stato scritto più di un anno fa!
!
Esclusiva

Giugno 26 2020
Il sogno palestinese ostacolato da un atto burocratico

Il governo israeliano di Benjamin Netanyahu, come previsto dal piano presentato da Donald Trump, si sta preparando ad annettere ufficialmente le colonie situate là dove dovrebbe nascere lo Stato di Palestina. L’Analisi di Ugo Tramballi

«Tutti gli esperti sono sicuri che l’annessione avrà luogo». Ugo Tramballi, consigliere scientifico dell’Istituto Studi di Politica Internazionale ed editorialista per gli affari internazionali del Sole24ore, parla alla redazione di Zeta dell’inglobamento nello Stato d’Israele delle colonie situate in Cisgiordania, previsto per il 1° luglio. «Netanyahu non può tirarsi indietro».
«A differenza degli altri leader israeliani, l’attuale capo del governo, ha sempre pensato solo a sé stesso e al suo potere personale. Ritiene che questo passo lo porterà una volta per tutte nel pantheon della storia d’Israele, al fianco di Ben Gurion e Moshe Dayan. Va detto però che in molti credono che l’annessione sarà lenta e potrebbe interessare, almeno in un primo momento, solo le aree vicine alla vecchia linea riconosciuta internazionalmente come confine tra Israele e Palestina». Un’annessione totale delle colonie potrebbe inoltre mettere in difficoltà il vicino regno Hascemita di Giordania, dove circa il 70% della popolazione è composta da palestinesi, e il cui malcontento renderebbe difficile la vita della famiglia reale.

Colonie
Progetto di spartizione di Donald Trump


«Qualunque sia il tipo di annessione, totale o parziale, non dobbiamo aspettarci un’azione che richiami la stampa mondiale. Sarà un atto burocratico. Le forze armate israeliane sono già lì, e questi territori sono già sotto il controllo dell’IDF (Israel Defense Forces)». Quello che cambierà sarà quindi la burocrazia, gli abitanti delle colonie non dipenderanno più dall’amministrazione militare, ma da quella civile. «Se non ponesse un altro grave ostacolo alla soluzione dei due stati, sarebbe un non-evento».
Le colonie costruite nella West Bank, dall’attuale e dai passati governi israeliani, in violazione della risoluzione sulla ripartizione della Palestina approvata dall’Onu, sono sempre state un ostacolo alla nascita di uno stato palestinese. «Ormai alla soluzione dei due stati sono in pochi a crederci. Parlando con i ragazzi di Ramallah, Hebron, Gerusalemme, Nablus e altre città palestinesi, si scoprirebbe che la lotta per l’indipendenza nazionale sta lentamente cedendo il posto ad una per il riconoscimento degli stessi diritti civili e politici». Quello che potrebbe paventarsi in futuro da parte palestinese è la richiesta di una soluzione diversa da quella dei due stati: uno stato unico bi-nazionale con cittadini che godono uguali diritti. Anche questa istanza però non sarebbe accettata da Israele. Se tutti i palestinesi ricevessero la cittadinanza israeliana, gli ebrei tornerebbero a essere una minoranza, ed Israele è stata creata proprio per evitare questa situazione. L’unica soluzione rimane quindi la creazione dei due stati.

Le reazioni all’annessione

«Il mondo arabo è troppo distratto da altri problemi: la crisi siriana, la guerra in Libia, la crisi politica ed economica libanese e le ambizioni turche e iraniane. La questione palestinese, dinnanzi a questo pericoloso e confuso panorama, è stata accantonata da tutti. Solo l’arroganza di Netanyahu l’ha resa di nuovo attuale».
L’Europa, pur essendo ufficialmente contraria all’annessione delle colonie, difficilmente farà qualcosa di concreto per fermarla, «le preoccupazioni europee sono rivolte ai profughi, soprattutto quelli siriani. I palestinesi in fuga non preoccupano perché la maggior parte di loro non viene qui, ma rimangono nell’area mediorientale. Inoltre, senza unanimità, l’Unione Europea non può muoversi e Netanyahu ha amici tra i governanti europei, per paradosso, sono quelli più antisemiti, come l’Ungheria».
Anche le reazioni palestinesi sono state fino ad ora tiepide. «Oggi i palestinesi scendono in piazza perché non hanno più uno stipendio. L’autorità palestinese, in seguito alla presentazione del piano Trump, ha interrotto la collaborazione sulla sicurezza con Israele, che ha reagito smettendo di recapitare ai palestinesi i soldi delle tasse che raccoglie per loro conto. Sono mesi che l’autorità non riesce a pagare gli stipendi. Inoltre il popolo palestinese non ha più fiducia nella sua classe dirigente, che si è rivelata assolutamente mediocre, e Hamas non è considerata un’alternativa credibile. Una classe dirigente degna non si è formata perché i migliori sono tutti nelle carceri israeliane».  

Il piano Trump e l’errore ricorrente dei palestinesi

Il piano di pace voluto dal genero di Trump, Jared Kushner, prevede la creazione di uno Stato palestinese, «dalle dimensioni ridicole, non è per questo che i palestinesi hanno combattuto», e gli assegna anche una capitale, «non è Gerusalemme Est, ma una città vicina. Come se dicessero Fiumicino anziché Roma». Ugo Tramballi, malgrado il giudizio negativo del piano americano, pensa che i palestinesi non avrebbero dovuto disertare le trattative. «Se i palestinesi vi avessero partecipato, avrebbero messo in difficoltà Netanyahu. La destra israeliana, che lo appoggia, è anch’essa contraria a questo piano di pace perché per loro non deve esistere neanche una parvenza di Stato palestinese. Se i palestinesi si fossero seduti al tavolo, sarebbero stati gli israeliani ad alzarsi. Questo è un errore ricorrente nella strategia palestinese. Abba Eban, ministro degli esteri israeliano tra il ’66 e il ’74, una volta disse che gli arabi non perdono mai l’occasione per perdere un’occasione, e purtroppo è vero. I palestinesi, come tutto il popolo arabo, portano avanti una posizione massimalista, vogliono tutto e subito. Sotto la presidenza di Obama, il meno filo israeliano tra i presidenti americani dai tempi di Johnson, i palestinesi non sono riusciti ad ottenere nulla, anche a causa di questo atteggiamento».

Colonie, Trump e Netanyahu

Economia palestinese

«Ai palestinesi è stato impedito di avere una loro economia». Tutte le città palestinesi, anche le più grandi, sono circondate da check-point israeliani, e questo limita molto la produzione e lo scambio di prodotti, perché ogni cosa deve passare per Israele. «È inutile produrre materiale farmaceutico o di altro genere se poi potrebbero non permetterti di distribuirlo».
Nei piccoli villaggi si vive per lo più di agricoltura. «I contadini lavorano grazie agli uliveti, e i coloni israeliani regolarmente li danneggiano segandone i rami. L’unico modo, che la gran parte del popolo palestinese ha per vivere, è quello di lavorare per i loro occupanti. Quelle stesse colonie, che ostacolano la creazione dello stato palestinese, sono state costruite proprio da muratori palestinesi. Questa è un’umiliazione ulteriore, ma il pane a casa lo devono portare».

Il sogno palestinese ostacolato da un atto burocratico

Leggi anche: Sfida alla repressione, da Hong Kong la voce di Wilson Leung