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Esclusiva

Luglio 2 2020
Perù, quando la fame è più forte del Coronavirus

Il Perù è uno dei paesi dell’America Latina più colpiti dal Coronavirus. Un racconto con gli occhi di Villegas, giornalista del posto

Perù, 107 giorni senza la possibilità di lavorare. «Yo me quedo en casa» è lo slogan che continua a ripetere il governo, un messaggio diffuso in modo capillare da tutti i mezzi di comunicazione. È il nostro «io resto a casa» nell’ora buia del Perù. «Il 30 giugno sono finiti i 107 giorni di quarantena stabiliti dal presidente Martín Vizcarra. Dal 1 luglio le persone sono tornate a lavorare, a prendere mezzi pubblici, il 15 luglio riprenderanno anche i voli. Ma la verità è un’altra.» Parla Jonatan Villegas, giornalista del Grupo Cable Visión. Le regioni più colpite dal Coronavirus sono Lima, Callao e Piura, vicina al confine con l’Ecuador. Sono stati eseguiti test su 1.679.386 persone, di questi i positivi sono 285.213. I morti sono oltre 9.000.

La verità di Villegas racconta un Paese con un sistema economico e sanitario al collasso, in cui all’allentamento del lockdown non corrisponde una ripresa lineare. Villegas ha la voce pacata – giacca e camicia mentre è in collegamento video su Skype – quando spiega che gli ospedali non riescono più a far fronte all’emergenza. Molti peruviani hanno perso il lavoro, le aziende hanno chiuso o stanno tornando in funzione con personale ridotto per motivi di sicurezza. «I lavoratori indipendenti sono quasi il 70% della popolazione, per loro non lavorare significa non mangiare. Il governo ha predisposto aiuti economici per le famiglie più in difficoltà, ma non basta.»

Chi ha bisogno di lavorare lascia casa e si riversa nelle strade vendendo mascherine o altri prodotti. Una lunga pausa, poi Villegas racconta quello che gli ha detto uno di questi venditori improvvisati durante un’intervista: «no che non voglio morire di Coronavirus, ma nemmeno di fame.» Le istituzioni sono consapevoli del rischio di non rispettare le misure di contenimento, ecco perché lo slogan adesso è diventato «Yo me quedo solo». Villegas prosegue: «certo, il personale a contatto con il pubblico deve coprire mani e bocca sul luogo di lavoro, i mezzi pubblici hanno capienza dimezzata e bisogna osservare il distanziamento sociale, ma serve a poco se poi le vie sono affollate di venditori. Questa confusione contribuisce a diffondere il contagio, temo i casi aumenteranno qui in Perù nelle prossime due settimane.»

Le persone con maggiore probabilità di contrarre il Coronavirus sono gli adulti oltre i 50 anni e i pazienti con patologie pregresse. Giovani e bambini sono i meno vulnerabili. I giornalisti raccontano che il contagio può avvenire anche in ospedale, molti peruviani sono spaventati. «Per questo motivo si curano in casa, magari acquistando rifornimenti di ossigeno da utilizzare in caso di necessità.»

Quando Villegas dice di essere sopravvissuto al Coronavirus la sua voce si fa più bassa, sta pesando le parole. «Mi sono ammalato un mese fa, perché come i medici e la polizia anche noi giornalisti siamo in prima linea. Mi sono curato con Ivermectina, un farmaco per uso animale che mi ha prescritto un medico mio amico. Non c’è alcuna evidenza scientifica che curi il Coronavirus, ma nel mio caso ha fatto un miracolo.» Ha assunto tre dosi di questo medicinale, così hanno fatto sua madre e sua sorella. Sono salvi tutti e tre. «Sembra che se preso allo stadio iniziale permetta di guarire, ma non è certo. Un mio collega ha deciso di assumere Ivermectina troppo tardi ed è morto. Molti hanno paura di prenderlo perché non è per uso umano. Quando lo ingerisci brucia la gola, ma potrebbe salvarti la vita.» Anche se alcuni tentano di lucrarci, una buona parte di medici e imprenditori ha scelto di regalare il farmaco alla popolazione.

Nella redazione di Villegas in dieci sono risultati positivi al Coronavirus, quattro suoi colleghi non ce l’hanno fatta. «Continuerò a fare il mio mestiere, è l’informazione libera che rende il Perù e il mondo un paese democratico.»

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