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Esclusiva

Febbraio 24 2021
Ferlinghetti, l’editore visionario (e spesso incompreso) della Beat Generation

Si è spenta a 101 anni una delle personalità più ribelli e lungimiranti del Novecento. Scrittore, poeta, traduttore, autore radiofonico e, soprattutto, editore. Ne abbiamo parlato con Emanuele Bevilacqua e Alessandro Manca

In una celebre foto, Ferlinghetti è a San Francisco, circondato da una moltitudine di giovani davanti alla sua libreria, City Lights. Ragazzi di vita, senza una fissa dimora, legati a quell’uomo come a un padre. Sono i protagonisti della Beat Generation, la «gioventù bruciata» che incendiò la cultura americana a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso.

Lawrence è scomparso il 22 febbraio in seguito alle complicazioni di una malattia polmonare. Aveva 101 anni, ma la mente era quella di un Little Boy, come il titolo del suo ultimo libro pubblicato nel 2019. Scrittore, poeta, traduttore, autore radiofonico e, soprattutto, editore: in una parola, artista. Al suo genio si deve la scoperta di alcune delle penne più ribelli e iconiche del Novecento, da Jack Kerouac ad Allen Ginsberg; alla sua mente imprenditoriale, la creazione di un luogo, City Lights, capace di farsi fucina di una controcultura da cui l’America non si sarebbe più ripresa. «La sua straordinaria capacità non sta nel suo essere stato un poeta, ma nell’esser diventato un editore. In questo campo, è stato uno dei più grandi di sempre perché ha capito prima e meglio di altri tanti fenomeni, tra cui la Beat Generation», commenta Emanuele Bevilacqua, scrittore, editore e docente universitario.

Lawrence nasce a Yonkers, New York, il 24 marzo 1919. Madre di origini franco-portoghesi, padre bresciano. Il sogno di diventare giornalista lo porta prima alla University of North Carolina poi alla Columbia University, infine, a un dottorato alla Sorbona di Parigi. Durante gli studi, la leva militare. Ferlinghetti viene arruolato dalla Marina e partecipa allo sbarco in Normandia. È il 6 giugno 1944 quando i soldati statunitensi approdano a Omaha Beach, sulla costa francese, dando inizio alla liberazione dell’Europa dalla Germania nazista. Un anno dopo, ad agosto, è la volta delle bombe atomiche sulle città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki. Lawrence ha negli occhi il fungo di devastazione: visita le zone colpite, è sconvolto. Quelle immagini lo trasformano in un «pacifista radicale».

Quella voglia di armonia, qualche anno dopo, diventerà uno dei grandi temi della Beat Generation. Libertà sessuale, rispetto del mondo e di chi lo abita, bisogno di restituire la terra a chi se l’è vista sottrarre (il riferimento è soprattutto agli indiani d’America), liberazione dell’uomo da ogni forma di schiavitù: «Sono tutti argomenti attualissimi che partono proprio da lì, da quei ragazzi sfrenati, da Ferlinghetti. Il viaggio di Kerouac raccontato in On the Road è il simbolo della libertà, ma in realtà è solo la punta dell’iceberg», continua Bevilacqua.

Sono gli anni Cinquanta quando Lawrence fa ritorno negli Stati Uniti. Nel 1953 si stabilisce a San Francisco. Ed è lì, al 261 di Columbus Avenue, che tutto ha inizio. Insieme a Pete D. Martin fonda la libreria (poi diventata casa editrice) City Lights. Ginsberg e compagni trovano tra quelle mura stimoli e protezione. Gli scaffali si riempiono di libri sconci, spesso illegali. «Da poeta, ha interpretato un momento storico, ma la sua vera forza è stata quella di aver scoperto e pubblicato una serie di grandi scrittori, di aver messo insieme una comunità artistica litigiosa, bizzarra e ai limiti della legalità intorno alla sua libreria. È stato come un principe rinascimentale che offre il suo spazio e le sue competenze per valorizzare un pensiero che è sempre stato alternativo in America», spiega lo scrittore.

È il 1956 quando Allen Ginsberg pubblica il suo Urlo: una scelta che il Ferlinghetti editore pagherà cara. Viene accusato di vendita e diffusione di materiale osceno, quindi processato. Intellettuali e organi di informazione si mobilitano in sua difesa, fino a ottenerne il rilascio: nessuno, prima di lui, si era appellato al Primo Emendamento (che disciplina la libertà di parola e di stampa in America) per la diffusione di un’opera divisiva, ma di interesse collettivo. Secondo Alessandro Manca, autore de I figli dello stupore. La beat generation italiana, «pubblicando quell’opera, Lawrence dimostrò tutta la sua lungimiranza. La sua produzione poetica non è mai stata degna di questo capolavoro, ma senza di lui non staremmo qui a parlare di Ginsberg. È fuor di dubbio che la sua poesia non sia unica, anzi, è derivativa, ispirata ad alcuni poeti francesi, come Jacques Prévert, ma bisogna anche chiedersi: come si fa a essere un artista scardinante quando devi gestire anche un’attività economica?».

Ferlinghetti spesso non capiva (e non veniva capito da) i suoi compagni. «C’era una diversità umana e organizzativa: non è un caso che molte volte i rapporti con Kerouac e Corso non siano stati buoni. Lawrence, per esempio, non capì la poesia Bomba, a forma di fungo nucleare. La dedica era all’atomica, un atto d’amore nei suoi confronti. Decise di non pubblicarla perché la considerava inaccettabile. La sua morale progressista non sempre era condivisa dagli altri», spiega Manca.

In una delle sue ultime interviste, Kerouac racconta di un momento in cui l’editore sale sul carro dei beat e inizia a fare discorsi politicizzati che nessuno dei colleghi aveva (e avrebbe) mai fatto. «Il problema fu proprio la matrice populista. In tanta sua poesia, se letta oggi con un po’ di distacco, si percepisce questo stampo: si appoggia a valori democratici per il bisogno di comunicare una tesi, di unire i lettori, ma l’aspetto potente di catarsi è in secondo piano rispetto ai vari Ginsberg, Kerouac e Corso. Questa impronta è evidente in Manifesto populista, come suggerisce il titolo stesso: si tratta di un catalogo scritto in modo molto semplice per inneggiare a un cambiamento di stile e di sguardo. Il messaggio è potente, ma la poesia non lo è altrettanto», continua Manca.

A segnare un solco tra Lawrence e colleghi anche la sua italianità: «Ha sempre ricercato le sue radici. Venne più volte a Brescia sulle tracce dei suoi avi. Fece anche una serie di collaborazioni legate all’Italia. Era consapevole di essere mezzo europeo e forse anche per questo il suo modo di sentirsi poeta era diverso».

Chiarezza espositiva, semplicità ed eleganza sono le sue cifre stilistiche, ma secondo Manca «come beat non ha mai osato». D’altronde, Ferlinghetti stesso, in un’intervista rilasciata al Corriere della Sera nel 2019, ammise di non essere mai stato beat. «Da questo punto di vista era più simile a Ginsberg, che infatti divenne il grande comunicatore del movimento, abbandonando gli aspetti più drammatici della sua poetica».