«Il Partito Democratico è un partito incrostato di maschilismo che, per essere rotto, ha bisogno di gesti forti». E se ad affermarlo è proprio il suo Segretario, c’è da crederci. Enrico Letta ha faticato infatti non poco per far digerire ai maschi bianchi e cinquantenni del partito la sua decisione di sostituire i capigruppo dem in Camera e Senato con due donne, rispettivamente Debora Serracchiani e Simona Malpezzi.
«Una scelta che, se non altro, prende atto dell’esistenza del problema, pur tuttavia rimanendo un gesto simbolico». Così Giulia Blasi – scrittrice e autrice dei saggi “Manuale per ragazze rivoluzionarie” e “Rivoluzione Z” (Rizzoli) – commenta a Zeta l’elezione delle capigruppo. «Due donne che rientrano nelle logiche del partito non rappresentano un così grande cambio di passo ma sono comunque due donne in due posizioni importanti. Bisogna vedere se Letta vorrà portare questo discorso oltre il gesto simbolico e iniziare a occuparsi di chi viene rappresentato dal Partito Democratico e come».
Dunque non una rivoluzione copernicana, ma un gesto forte cui dovranno far seguito azioni concrete. Soprattutto dopo la vicenda delle nomine del governo Draghi in cui, i tre ministeri assegnati al partito, sono andati ad altrettanti uomini lasciando alle compagne la lotta per i sottosegretariati. «Accettando un’offerta del genere ci si è messi al servizio di una logica di cooptazione. È sempre una classe di uomini a decidere, prima nega e poi concede, e non vuole che le compagne siano altro se non “portatrici d’acqua”» dice Blasi.
E sulla questione capigruppo continua: «A Marianna Madia va riconosciuto il merito, sfidando Debora Serracchiani, di aver riportato il tutto sul piano del confronto tra personalità, persone e idee, e non semplicemente dello “scegliamo una donna e piazziamola lì”. Poi Serracchiani ha assunto la guida del gruppo parlamentare, Madia si è congratulata e la questione è stata risolta in maniera pacifica. Tuttavia, sia sulla stampa che nelle comunicazioni ufficiali si è parlato sempre in termini di “una donna, due donne”, come se non fossero coinvolte persone con nomi e cognomi. Quando sono gli uomini ad essere sul piatto si parla di nomi, non di “un uomo”. Non ci si può fermare solo al valore simbolico della persona, perché le donne non sono tutte uguali».
Secondo Blasi il Nazareno sta vivendo una crisi d’identità e di rappresentatività: «Quali sono le idee che il partito rappresenta? Perché non si riesce a fare una sorta di gender mainstreaming con cui le idee, le necessità, l’ottica e l’esperienza delle donne vengono portate all’interno dell’azione del partito, invece di tenerle separate? Tutte domande che un partito di centro-sinistra dovrebbe porsi e che non possono essere lasciate cadere soltanto perché ora ci sono due capigruppo donne».
Anche nel sistema delle “quote”, secondo Blasi, bisognerebbe tendere a una sempre maggior inclusività: «Io odio chiamarle “quote rosa”, secondo me è molto denigratorio», puntualizza. «Credo che siano un mezzo indispensabile per fare spazio alle donne ma non saranno sufficienti finché non cambieremo l’assetto culturale di questo Paese. Il rischio altrimenti è quello di sostituire a maschi bianchi privilegiati, donne bianche borghesi che hanno studiato. Il problema di questo Paese non è la rappresentanza delle donne bianche borghesi ma degli italiani non bianchi, degli italiani senza cittadinanza, delle persone con un’identità di genere difforme da quella binaria: una parte della società che nei media e in politica continua a essere sottorappresentata. Quindi facciamo in modo che le “quote” non siano solo di genere, ma siano il più possibile rappresentative della realtà. Devono essere una misura transitoria per arrivare a far comprendere che i punti di vista sono molteplici e che il gioco è truccato e non possiamo continuare a chiamare meritocrazia quello che in realtà non lo è».
Una visione che ricorda molto quella del femminismo intersezionale, definendosi con questo termine quella corrente che intende combattere sia la discriminazione di genere che quella basata su altre categorie sociali, biologiche e culturali come l’etnia, l’orientamento sessuale e la classe sociale. Arrivando a lottare contro diversi tipi di discriminazione e intolleranza. La questione quindi, secondo Blasi, non è “donne sì” o “donne no”. Il problema sta invece nella centralità e pervasività dello sguardo maschile eterosessuale bianco e borghese che toglie spazio ad altre categorie sociali, oltre che alle donne.
E, nel caso di queste ultime, detta legge su vari aspetti della loro vita e sulla narrazione che se ne fa. «Tutto quello che ha a che vedere con noi è mediato o da quello che dicono di noi o da quello che ci si aspetta che noi diciamo di noi stesse». La scrittrice fa l’esempio dell’aborto, che la narrazione mainstream dipinge sempre come un evento traumatico, coperto dal senso di vergogna. Ma anche della maternità di cui è ancora difficile parlare in maniera onesta e in cui la fatica dell’essere madri è ancora un tabu. Se non si interviene sul paradigma culturale del Paese per le donne, come per altre categorie, è difficile riappropriarsi della propria narrazione e rivendicare il proprio posto nel mondo. «Se non lavoriamo sull’idea che gli sguardi siano altri e che ci siano altri modi di vedere il mondo, continueremo ad avere una minoranza numerica che si comporta da maggioranza di fatto», conclude la scrittrice.
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Foto in evidenza di Roberto Vicario, CC BY-SA 3.0, via Wikimedia Commons