Attenzione! Questo articolo è stato scritto più di un anno fa!
!
Esclusiva

Giugno 1 2021
Sentenza ex Ilva, ma a Taranto la vita è una sola

In seguito al processo Ambiente Svenduto sono stati condannati gli ex proprietari e vertici dell’acciaieria per disastro ambientale durante la gestione da parte della famiglia Riva

«Dopo tanti anni stiamo ancora cercando di capire se l’ex Ilva inquina oppure no», undici per l’esattezza, racconta l’ambientalista tarantino Luciano Manna. Eppure agli occhi dei cittadini, passanti occasionali o turisti, la risposta è evidente, anzi ti accoglie entrando nella città. I guard-rail di ferro si fanno sempre più rossi man mano che ci si avvicina, segno dell’azienda siderurgica più grande d’Europa. Oggi, la condanna a 22 e 20 anni di reclusione per Fabio e Nicola Riva, proprietari dal 1995 al 2013, e tre anni all’ex presidente della regione Puglia Nichi Vendola ha portato giustizia nella città. «Anche se in minima parte visto i lunghi tempi per raggiungerla», aggiunge Manna. La sentenza della Corte D’Assise di Taranto si riferisce, infatti, a reati avvenuti fino al 2013, nella gestione del gruppo Riva, ciò che è successo da allora fino ad oggi verrà affrontato in altre indagini: «Noi abbiamo una vita sola però, non possiamo andare avanti così per altri venti anni», conclude.

E di vite l’acciaieria ne ha già portate via troppe, come quella di Francesco Zaccaria morto lo scorso anno a causa del crollo di una gru nel 2012. Suo padre, insieme ai parenti e agli amici delle vittime della cattiva gestione e dell’inquinamento dell’ex Ilva, ha preso parte al processo. «Abbiamo ascoltato composti la sentenza che ha ammesso la falsificazione delle analisi di laboratorio delle matrici ambientali raccolte nella fabbrica da parte dell’azienda», dice Manna con un po’ d’orgoglio nella voce. Una verità che tutti sospettavano e che era stata già denunciata da un ex operaio del reparto ecologico nel 2018. «Qualcuno lo sapeva, altri lo sospettavano», racconta un operaio che preferisce restare anonimo. «Ormai non possiamo neanche parlare», si riferisce al licenziamento di Riccardo Cristello per aver pubblicato su Facebook un post in cui invitava a seguire la fiction Svegliati Amore mio. Supposizioni confermata dalle perizie chimiche ed epidemiologiche e dalle relazioni scientifiche dei test richieste dai pm, nonostante la continua smentita da parte degli avvocati della famiglia Riva.

«Siamo felici che abbia vinto l’ambiente visto che siamo i primi a subire le conseguenze dell’inquinamento, ma la notizia che un tempo sarebbe stato un segnale ormai ci scivola addosso», dice l’operaio rassegnato. Nonostante la condanna della Corte Europea dei diritti dell’uomo contro il governo italiano per violazione del diritto alla vita, gli impianti di Taranto restano sequestrati, ma con facoltà d’uso per ArcelorMittal, attuali proprietari della fabbrica. «Almeno sotto la gestione dei Riva nessuno era in cassa integrazione, ma i loro imbrogli e bugie per perseguire i guadagni hanno portato a tutto questo e a pagarne le conseguenze adesso siamo noi», racconta l’operaio

 «Attendiamo una vera giustizia» perché questa sentenza, anche se può sembrare un buon punto di partenza, non basta. La città aspetta la decisione del Consiglio di Stato sul ricorso di ArcelorMittal alla sentenza del Tar Lecce che il 13 febbraio ha imposto la chiusura dell’area a caldo del siderurgico, dove ci sono gli impianti destinati alla produzione di materiale in coils. «Vedremo come il governo si pronuncerà nei confronti della fabbrica, anche se fino ad oggi è andata in controtendenza rispetto all’evidenza scientifica», afferma Manna. Le cose non possono cambiare in pochi anni, ma dal primo decreto salva Ilva del 2012, con l’obiettivo di bilanciare protezione della salute degli abitanti di Taranto e la difesa di migliaia di posti di lavoro, non è cambiato nulla. La transizione ecologica non è ancora iniziata, mentre la città continua ad essere sommersa dalla nube rossa della diossina.

Leggi anche Ventiquattro chilometri di inquinamento, così muore il fiume Sarno