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Esclusiva

Marzo 28 2022
Se qualcosa sta arrivando, non è un Oscar

A sessant’anni di distanza, “West Side Story” del regista Steven Spielberg non convince quanto il film originale

La prima statuetta della Notte degli Oscar è vinta da West Side Story. Sarà anche l’ultima per il film. L’apertura con il trionfo con la migliore attrice non protagonista avrebbe potuto far ben sperare, ma in realtà la pellicola ha iniziato la cerimonia in negativo, con meno tre premi. Novità della 94esima edizione degli Academy Awards è stata premiare otto categorie fuori dalla diretta, durante il red carpet. Tra quelle, la pellicola era candidata a miglior scenografia, miglior fotografia e miglior sonoro, ma ha perso sempre contro Dune.

Il film di Steven Spielberg era il grande favorito Disney, con più papabili statuette, ma lascia il Dolby Theatre con un solo riconoscimento.

A sessant’anni di distanza dalla vittoria di Rita Moreno, il personaggio di Anita si riconferma un ruolo da Oscar. Ariana Debose è la prima donna nera dichiaratamente queer a vincere come miglior attrice non protagonista. Con il riconoscimento dell’Academy, diventano tre in tre mesi le sue vittorie in questa categoria: a gennaio trionfò ai Golden Globe e a febbraio ai Bafta (British academy film awards).

Forse, le prime avvisaglie di sconfitta dovevano esserci quando Rachel Zegler, che ha interpretato Maria, aveva annunciato di non essere stata invitata alla cerimonia. Sarebbe stata ironica la vittoria come miglior film senza l’attrice protagonista in sala.

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Nel documentario dietro le quinte Something’s Coming: West Side Story, il regista Steven Spielberg racconta di essersi divertito a riproporre il suo musical preferito. Tuttavia, le 7 candidature (contro le 11 nel 1962) e la singola vittoria (contro le 10 del film originale) sembrano lasciar intendere che certe storie è meglio rimangano nel passato.

Se è vero che era giunto il momento di rifare West Side Story per dare a una nuova generazione portoricana la possibilità di vedersi sul grande schermo, è anche vero che non c’è più bisogno di narrazioni in cui due ragazzi si giurano eterno amore dopo un ballo.

Non è colpa degli attori protagonisti che cantano e recitano con passione, ma la parte romantica impallidisce a confronto con la New York degli anni ’50, alle dinamiche di chi la abitava e alla povertà che Spielberg fotografa. I punti di forza del regista sono scegliere attori portoricani per interpretare gli Sharks e l’essersi documentato per ricreare con precisione il clima di quel periodo, non solo nelle insegne dei negozi, ma nei modi di fare, nelle atmosfere, nello slang.

In quanto musical, West Side Story non ha solo canzoni che interrompono e portano avanti la narrazione, ma anche balli. Una danza e una mischia sono entrambe coreografate come un ballo e si riescono a distinguere per la loro ambientazione.

Il conflitto fulcro della narrazione è quello tra le due bande, i Jets e gli Sharks (visualizzato anche nella palette di colori usata per i vestiti: toni freddi di azzurri e grigi per i primi e caldi rossi e gialli per i secondi), ma non è l’unico. Anche all’interno di uno stesso gruppo ci sono conflitti che spingono avanti la narrazione e si riflettono su quello principale, in particolare quello tra gli uomini, desiderosi di tornare a Porto Rico, e le donne, sottovalutate e messe da parte che vogliono restare in America.

Interessante come, a differenza del Romeo e Giulietta di Shakespeare (di cui questo film è un retelling), qui il conflitto non si risolva, la città continui a cambiare, modernizzandosi, e le due bande sono sempre costrette a convivere, con i loro fallimenti e dolori e pregiudizi, odiandosi, nello stesso territorio.

Crediti immagine in evidenza: A scene still from 20th Century Studios’ WEST SIDE STORY. Photo by Niko Tavernise. © 2021 20th Century Studios. All Rights Reserved.