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Esclusiva

Maggio 14 2022
Il velo di May

Il racconto della battaglia sulla pelle delle donne musulmane che vogliono portare il velo per rivendicare la propria identità

«Ho forgiato la mia identità intorno al velo. Nonostante abbia capito che non è né un obbligo né un punto cardine della fede, ho continuato a volerlo portare perché è diventato parte della mia personalità, del mio lavoro, della mia vita». Maymouna Abdel Qader, da tutti conosciuta come May, è mediatrice culturale e responsabile della sezione di Perugia dei Giovani Musulmani d’Italia. Ha iniziato a portare il velo imitando i comportamenti della madre e delle sorelle più grandi, non capendone il vero significato.  «È iniziato come una sorta di gioco. Un po’ come chi sceglie di farsi una pettinatura piuttosto che un’altra, un piercing piuttosto che un tatuaggio. Poi, è diventato, per me, una questione di identità, svincolato dalla religiosità».

Il velo islamico è il terreno su cui, da anni, si consuma una battaglia politica sul corpo delle donne. Demonizzato da chi ritiene sia la prova provata dalla sottomissione delle donne islamiche, ostaggi di una cultura sessista e patriarcale, il velo è, invece, per molte di loro un elemento essenziale di affermazione del sé. Una rivendicazione del diritto a scegliere cosa fare del proprio corpo e a entrare a far parte della società pluralistica con il proprio portato culturale e valoriale.

Come spiega May, infatti, «la questione del velo per l’Islam è fondamentale: dare ad ogni donna la facoltà di decidere se velarsi o no è stato il primo grande passo verso l’eguaglianza di genere in una società in cui la donna non poteva scegliere».

In molte culture pre-religiose la mentalità dell’epoca imponeva di coprire la donna per due ordini di ragioni: innanzitutto, le si doveva proteggere dagli istinti sessuali maschili e, in secondo luogo, doveva essere evidente all’occhio la differenza tra la donna morigerata, coperta, e quella di facili costumi, scoperta. «Una volta assorbita la cultura dalla religione l’usanza è rimasta sottolineata da versetti del Corano e della Bibbia che prescrivevano di tenere un abbigliamento casto. Nell’Islam- specifica May- la prescrizione vale anche per gli uomini».

A sostegno del fatto che non ci sia attinenza con le questioni religiose e che si tratti, dunque, di una manifestazione identitaria della cultura islamica vi sono due riferimenti coranici. “Più vicino a Dio è chi più lo teme” recita la II Sura, spostando il baricentro della fede dalla precettistica alla devozione e al timore nei confronti del divino.

Nell’Islam non c’è il concetto di obbligatorietà (“Nella religione non c’è costrizione”; v. 256 II Sura), ma osserva May «come accade anche in altre le culture, della religione viene preso solo ciò che permette di sottomettere un popolo, una famiglia, una moglie, un figlio».

È proprio la libertà di interpretazione del testo sacro che presta il fianco ai posizionamenti più estremisti. La mancanza, infatti, di una gerarchia religiosa al vertice della quale è posto un individuo che decodifichi il testo sacro per tutti e detti regole universale, unita alla raffinatezza del lessico e della grammatica con cui è scritto il Corano dà vita a un insieme variegato di interpretazioni. È in questa diversità che c’è tutto il bacino dei modi di portare il velo.

«Basterebbe bussare alle porte delle famiglie musulmane per rendersi conto che molte di queste sono di stampo matriarcale». È l’invito di May, che spiega come la costruzione di un discorso politico strutturato, a partire dall’attentato alle Torri Gemelle, sulla retorica dell’Islam nemico dell’Occidente, abbia inciso sulla persistenza dei pregiudizi legati alla cultura musulmana.

«Sotto ci sono questioni geopolitiche di non poco conto: i paesi islamici detengono circa i tre quarti delle risorse energetiche del pianeta e questo induce gli altri paesi a criminalizzarli e additarli come nemici per giustificare certe azioni politiche. Questo è successo per cristiani, ebrei, buddisti. Si è molto giocato su questo». Ma responsabili della stagnazione dei pregiudizi sono anche i musulmani che «non sono stati capaci di combattere l’ignoranza in maniera giusta. Si combatte con la giusta informazione. L’educazione delle comunità nei paesi di origine e la spoliazione dei retaggi culturali radicali sarebbe stato fondamentale per depotenziare il pregiudizio».

E a giudicare dalle esperienze che racconta May il velo è ancora un forte tabù. «Per un mese ho fatto la mediazione in un reparto dell’Ospedale Santa Maria della Misericordia di Perugia in cui il primario aveva quotidianamente da ridire sul fatto che portassi il velo, dicendomi che spaventavo i pazienti. In realtà la maggior parte di quelli con cui mi interfacciavo erano musulmani e il mio velo più che spaventarli li faceva sentire accolti».

Alle offese e agli scherni May, che è nata e cresciuta in Italia, è abituata sin da piccola. «Li ho sempre combattuti con l’autoironia, ferma nella convinzione che fossero frutto di ignoranza e certa di farli ricredere facendomi conoscere. Ma viverli sul luogo di lavoro è frustrante. Bisogna avere la fortuna di incontrare un datore di lavoro di mentalità aperta e pronto a sfidare i pregiudizi».

La sensazione della giovane donna è che l’immagine sia tutto «e quindi nonostante mi trucchi e mi vesta bene attiro diffidenza. È come se i capelli fossero l’essenziale di una donna e questa fosse riducibile al suo corpo. Quell’Occidente che ci ha incoraggiato all’emancipazione ci pone oggi gli ostacoli più forti: è contraddittorio». 

Se si pensa che una donna curvy non viene assunta come hostess perché non rispetta lo standard, è facile farne seguire che una donna che porta una tunica o un velo fa molto più fatica a farsi assumere. Nonché a mantenere un lavoro. «Molte donne che pur di non rischiare il posto di lavoro, continuano a togliere il velo nel momento in cui entrano al lavoro lo rimettono al momento dell’uscita».

A fare da contraltare all’autocensura delle donne che ancora faticano ad affermare la propria identità ce ne sono tante altre, specie di seconda generazione, che fanno del velo il vessillo e lo strumento delle loro battaglie. «Le giovani musulmane stanno rimodulando la moda e la bellezza anche attraverso il velo, basti pensare a Hind Lafram, stilista italiana che crea capi per donne islamiche. Vogliono dimostrare che lavorare e stare al passo con i tempi e gli standard si può anche con il velo. L’unica a vera violenza è quella di chi vuole toglierci la possibilità di scegliere».

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