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Esclusiva

Maggio 15 2022
Take a Stand, la protesta nello sport

Louis McKechnie, durante una partita di Premier League, si è legato ad un palo della porta per protestare contro la scelta del governo britannico di aumentare gli investimenti in combustibili fossili.

A Goodison Park è da poco iniziato il secondo tempo di Everton-Newcastle. Louis McKechnie scavalca il cancello e rapidamente si lega al palo della porta difesa da Begovic, portiere dell’Everton, con un laccio antitaccheggio. Sulla maglia è riportato un indirizzo web: Just Stop Oil.org. Una campagna nata con l’intento«di esigere dal governo britannico un impegno a non sottoscrivere nuovi accordi per l’utilizzo di combustibili fossili». Louis è convinto che la battaglia valga di più delle ire che ha attirato: «Mi è dispiaciuto interrompere un evento così importante per i tifosi, ma niente ha più impatto di una manifestazione sportiva per farsi ascoltare e se non si crea consapevolezza sulle scelte dei nostri governi, saremo noi a pagare con la vita»

Ancora una volta, perché il messaggio venga ascoltato si sceglie di utilizzare il corpo come mezzo per protestare. Nonostante la combinazione di sport, corpo e protesta non siano popolari insieme, perché tutto ciò che è protesta è politica e la politica nello sport non deve entrare, questa si rincorre ormai da decenni rendendo immortali le storie dei protagonisti e delle loro rivendicazioni.

I guanti neri di Tommy e John

L’immagine simbolo della protesta sportiva è quella relativa alla premiazione dei 200 metri alle Olimpiadi di Città del Messico 1968. Sul podio ci sono due atleti afroamericani, Tommy Smith e John Carlos, e un australiano, Peter Norman. Tommy e John studiano alla San Josè State University, e frequentano il corso di sociologia del professor Harry Edwards, il primo afroamericano ad ottenere una cattedra in quella materia in tutti gli Stati Uniti.

Sarà proprio Edwards a fondare, insieme a molti atleti afroamericani, tra cui Tommy, John e un giovane Kareem Abdul-Jabbar, l’Olympic project for human rights. Nonostante l’intento di denunciare la segregazione razziale e il razzismo che gli atleti di colore subivano in patria, il movimento ebbe vita breve perchè incapace di conciliare le diverse posizioni al suo interno. Il paventato boicottaggio non avverrà, ma il clima prima dell’inizio delle Olimpiadi messicane era tutto tranne che sereno.

I 200 metri non regalano sorprese: Tommy stravince, John, esce bene dai blocchi, non riuscendo a tenere la concentrazione e, oltre a perdere il primato, si lascia sorpassare anche dall’australiano Norman. Non è importante: conta essere sul podio insieme. Contemporaneamente alla salita della bandiera a stelle e strisce, si alzano anche i pugni, inguantati di cuoio nero, dei due sprinter californiani, simbolo del Black Power, ma anche delle Black Panther.

Il giorno seguente vennero espulsi dalla selezione americana e al rientro in patria vennero trattati come degli appestati e non come i campioni, vincitori di medaglie, che erano.

Colin Kaepernick: in ginocchio per gli oppressi

Quando nell’agosto 2016, in una partita amichevole dei San Francisco 49ers, Colin Kapernick non si alza per rendere omaggio alla bandiera americana durante l’inno, non può immaginare che nel giro di un anno sarà estromesso da ogni attività legata al football professionistico.

Le sue prime parole ai reporter, curiosi di capire le motivazioni del gesto, furono: “Non mi alzerò con orgoglio per la bandiera di un paese che opprime le persone di colore e le altre minoranze”. Si riferisce alle violenze della polizia sugli afroamericani, che nel luglio 2016 hanno portato alla morte di Alton Sterling e Philando Castile.

La Nation Football League (NFL) sembrava aver tollerato quel gesto, scrivendo in merito “che i giocatori sono incoraggiati, ma non obbligati a partecipare alla cerimonia dell’inno nazionale”. La settimana successiva la protesta del quarterback dei 49ers cambiò forma, arrivando all’inginocchiamento durante la riproduzione di The Star-Spangled Banner. Il gesto attirò la solidarietà da parte di molti atleti statunitensi: colleghi del football americano in primis, ma con un consenso trasversale che raggruppava anche giocatori NBA e star del baseball.

Mettersi in ginocchio davanti alla bandiera americana iniziò ad essere visto come un gesto fastidioso da molti fan, ma soprattutto da una parte del partito repubblicano, che, con il candidato alle presidenziali Donald Trump, spingeva perché arrivassero delle sanzioni nei confronti di Kaepernick.

La sanzione più grave è ancora in corso: Kaepernick non ha un contratto dal 2016 e molte squadre hanno scelto giocatori meno talentuosi di lui per evitare una pubblicità negativa. Ha una causa in corso con la NFL, accusata di averlo boicottato. La sua protesta però ha ispirato gli sportivi di tutto il mondo.

Il calciatore antifascista

Bruno Neri, nato a Faenza nel 1910, era un mediano della Fiorentina. Quando il 13 settembre 1931 si inaugurava nel capoluogo toscano lo Stadio “Giovanni Berta le tribune sono gremite di tifosi fascisti e nella tribuna autorità c’è anche il podestà di Firenze insieme ai gerarchi. Bruno è dichiaratamente antifascista, sa che alzare un braccio per fare il saluto romano non significa sopravvivere, ma essere indifferenti, rendersi parte della propaganda del Duce.

In mezzo agli altri dieci giocatori, tutti ben inquadrati nei ranghi del regime, Bruno rimane fermo. Il fatto che di lì a pochi anni, dopo l’armistizio di Cassibile (1943), si arruoli nella resistenza” ne è una diretta conseguenza. Poteva scegliere, come altri suoi colleghi d’alta Italia di arruolarsi con i repubblichini di Salò per evitare le ritorsioni nazi-fasciste, ma ha preferito il freddo delle montagne con il foulard al collo e lo Sten in mano. A Marradi, il 10 luglio 1944, mentre con un compagno cerca di recuperare alcuni aiuti inviati dagli alleati, viene freddato da una raffica di mitra. Oltre a una lapide, a ricordare il calciatore partigiano anche lo stadio di Faenza, che dal 1946 porta il