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Esclusiva

Agosto 22 2022
Se il cielo non è più blu

I colori contribuiscono a creare la nostra identità e ci aiutano a dare forma al mondo, ma siamo davvero sicuri siano immutabili?

«Sullo sfondo blu del cielo, una corona di dodici stelle dorate rappresenta l’unione dei popoli europei». Questa la bandiera con cui i padri fondatori scelsero di presentare al mondo la comunità europea. A tutela della concordia che regna tra i popoli il blu del cielo, lo stesso cantato da Modugno in Volare, canzone simbolo di un’epoca e tutt’oggi intonata a qualsiasi latitudine. Quel colore nel quale reciprocamente mare e cielo si specchiano e che identifica il nostro pianeta visto dall’esterno.

Il blu è così presente nel nostro immaginario e nella nostra identità che non oseremmo mettere in discussione la sua esistenza. Eppure, se andassimo alle origini della civiltà, troveremmo popoli di continenti differenti, e quindi non influenzati l’uno dall’altro, che non conoscevano questo colore.

Cinesi, greci antichi, popolazioni mesopotamiche: tutti ignari dell’esistenza del blu. «Navigando sul mare color del vino» scrive Omero nell’Odissea. Una metafora, ricorrente nei poemi omerici, che riporta un’istantanea del mare all’ora del tramonto, quando i raggi del sole colpiscono le onde e dipingono l’acqua di rossastro, quasi trasformandola in vino. Mai un cenno all’azzurro o al verdino, in nessun passo. Un’evidenza che richiamò l’attenzione di William Gladstone, studioso e primo ministro inglese nell’ultimo quarantennio del 1800. La dispercezione cromatica di Omero e, per estensione dei greci antichi, non si limitava però a questo colore. Le pecore a cui Ulisse e i suoi compagni si aggrappano per riuscire ad uscire dalla grotta del mostruoso Polifemo sono coperte di lana viola! Il miele, ingrediente del filtro che la maga Circe somministra ai malcapitati ospiti per trasformarli in porci, è verde. Particolari quasi impercettibili nel flusso sterminato dei versi, ma così incisive nelle convenzioni sociali da stimolare la curiosità sulla razza delle pecore del ciclope o far nascere teorie sulla possibilità che quel particolare tipo di miele fosse tossico o psicotropo.

Lazarus Geiger, un filologo contemporaneo di Gladstone, sull’onda delle sue scoperte, si interessò al fenomeno con l’intento di comprendere se questo sfasamento percettivo fosse comune a più popolazioni. Studiò allora diversi testi sacri, tra cui la Bibbia e il Corano, oltre alle saghe islandesi e le antiche leggende cinesi.

«Più di diecimila righe piene di descrizioni del cielo. Difficile che ci sia un argomento più evocato di questo. Il Sole e il progressivo arrossamento al tramonto, il giorno e la notte, nuvole e fulmini, l’aria e l’etere, tutti questi fenomeni si dispiegano innanzi a noi ancora e ancora, ma c’è una cosa che nessuno potrà mai imparare da questi antichi canti: che il cielo è blu» scrive, dopo averli esaminati. Da ciò dedusse che nel lessico delle culture antiche i primi colori a comparire sono bianco e nero, quelli associati a luce e oscurità. Poi è la volta di sangue, vino e piante: nascono, quindi, parole che indicano il rosso, il giallo e il verde. Infine, molto più tardi, il blu. Soltanto sulle rive del Nilo, presso gli Egizi, si parla precocemente di questo colore e la spiegazione è semplice: sono l’unico popolo a saper produrre questa tinta.

Ma ad essere oggetto dello studio di Geiger furono anche i Maya. Per loro l’universo non aveva un colore preciso, lo identificavano con un misto di blu e verde. Una commistione percettiva che riguarda anche un popolo africano contemporaneo: gli Himba. Nel 2014 Jules Davidoff, professore di psicologia cognitiva alla Goldsmiths University di Londra, ha fatto un viaggio in Namibia presso questa tribù scoprendo che non solo è priva di un termine che indichi il blu, ma proprio come i Maya non lo distinguono dal verde, di cui, al contrario, riescono a individuare numerose sfumature.

L’anno dopo il linguista Guy Deutscher, autore de La lingua colora il mondo. Come le parole deformano la realtภè intervenuto in una trasmissione radiofonica, RadioLab, raccontando di aver condotto un esperimento sulla propria figlia. Insieme con la madre della bambina l’avevano educata facendo attenzione a non descriverle mai il cielo come “blu”. Quando un giorno Guy le ha domandato di che colore fosse il cielo la figlia in un primo momento non riuscì a dare una risposta, poi lo associò al colore bianco. Solo in un terzo momento lo associò al blu.

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