«Non parliamo più in russo, la nostra lingua madre, perché è diventata la lingua del nostro nemico». Con voce ferma Marina Sorina, scrittrice, saggista e giornalista ucraina e russofona, ha scavato nelle radici linguistiche della guerra in occasione dell’evento Ucraina in Europa. Sorina ha raccontato la storia di quattro poetesse ucraine, russofone per nascita e dedite allo studio della cultura russa per tutta la vita, che scosse dal conflitto hanno riposto l’anima in versi in lingua ucraina. «Forse quando le cose si calmeranno, i responsabili pagheranno le riparazioni e tutti i criminali saranno incarcerati dopo un giusto processo, recepiremo di nuovo la lingua russa. Adesso no, perché c’è sangue che scorre». Mentre Sorina parlava nella sala gremita di ospiti, sessanta razzi hanno bombardato Kharkiv e hanno stravolto per l’ennesima volta la seconda vita di una donna dai lunghi capelli biondi seduta in platea, che fino allo scorso febbraio non era profuga e non temeva per la sopravvivenza del marito e del figlio.
«Molto spesso la gente non capisce la differenza tra russofoni e filorussi, e usa i due concetti come sinonimi. Russofono è chiunque parli il russo, così come francofono è l’abitante del Canada o del Marocco. A nessuno viene in mente di dire: “Se vivi in Marocco e conosci il francese, ti piace la Repubblica francese e obbedisci agli ordini del Presidente Macron”. Il concetto non è in nessun modo legato al fattore etnico e storico, però i russi l’hanno usato come argomento politico. Filorusso è invece un orientamento politico, che tra l’altro può anche cambiare, e in nessun modo la presenza sul territorio di persone che, pur essendo cittadine dello Stato ucraino, preferiscono lo Stato vicino, significa che quel territorio appartiene alla Russia» ha spiegato Sorina. In Ucraina la questione linguistica, scolpita da «secoli di oppressione sistematica condotta con metodi burocratici come la censura e con repressioni fisiche dei promotori della lingua ucraina», ha tuttavia modellato la popolazione. «Gli ucraini hanno interiorizzato l’idea che la lingua ucraina è secondaria, perché l’Impero crea l’impressione che solo la padronanza della lingua dominante consenta di accedere all’élite e di emergere. Di conseguenza, anche dopo il crollo dell’Unione Sovietica e l’acquisizione dell’indipendenza nazionale, è rimasta l’idea che il russo come prima lingua garantisca maggiori opportunità». La lingua russa ha affascinato anche le generazioni più giovani, come ha raccontato Sorina: «Ho parlato con una giovane dottoranda che da piccola desiderava guardare in televisione canali, serial e show russi. Lei voleva solo divertirsi, ma il padre glielo proibiva perché “con il divertimento russo, arriva l’ideologia russa”. In effetti anche nelle produzioni più superficiali emerge un’idea di dominazione, modellata sulla superiorità dei russi e sull’inferiorità degli ucraini. Una generazione cresciuta senza veleno, però, va avanti a testa alta».
Il respiro di Sorina aumenta il ritmo, l’affanno si impadronisce della voce, gli occhi chiari dietro gli i grandi occhiali tondi esprimono indignazione. «L’arte non è un contenitore vuoto, perché comprende non solo la forma, ma anche il contenuto. Se il contenuto è velenoso e contiene idee contro la civiltà moderna, è giusto che quell’arte non sia rappresentata. Il che non significa cancellarla o censurarla, bensì evitare palchi importanti per opere che promuovono le idee imperiali di dominio russo». La scrittrice ha dunque contestato la scelta del Teatro La Scala di rappresentare alla Prima Boris Godunov, opera lirica di Musorgskij basata sul dramma di Pûskin, perché «su tutte le opere russe, hanno scelto proprio quella che dice: “lo zar può fare quello che vuole e il popolo deve stare zitto”». Sorina ha però ribadito che «l’arte deve esistere e permanere. Non cancelliamo Ortega y Gasset, sostenitore del regime franchista, o Wagner, ispiratore di Hitler, ma abbiamo il buon senso di non ascoltarli nel momento in cui la dittatura sostenuta da questa cultura sta commettendo dei crimini. Può darsi che tra cent’anni potremo parlarne con calma, ma a guerra in corso è immorale».