Non esiste evento, festa o salotto romano dove lui non sia stato. Non esiste uomo o donna di potere che non sia finito nel mirino della sua macchina fotografica. Che fosse un servizio posato o uno scatto rubato non fa poi chissà quale differenza.
«Nel mio lavoro cercavo di capire la gente e di capire me stesso. Vedere e cercare la nostra antropologia». A parlare è Umberto Pizzi, classe ’37, nato a Zagarolo e ancora oggi perla rara del fotogiornalismo italiano. Dopo aver immortalato la Dolce vita è stato inventore, con Roberto D’Agostino, di Cafonal sul sito Dagospia.

Lui che il potere e i suoi protagonisti li conosce bene. Sacro e profano. Verticale e orizzontale. Secolare ed ecclesiastico. Li ha uniti nelle sue memorie personali, digitali e umane. Dopo quattro Giubilei ancora non ha perso il vizio di scattare con la sua macchinetta. Protagonista preferita? La Capitale. «Roma è come una bella signora, è invecchiata, non è cambiata. È cambiato ciò che c’è dentro: la gente».
Interrogato sul come, spiega: «Negli anni ’50 e prima della guerra era diverso. Era un Paese disastrato dove la vita era corta e non avevamo niente, neanche le medicine contro le infezioni. Col tempo e con la forza della volontà di noi italiani, che litighiamo ma alla fine ci interessa migliorare il nostro Paese, si è andati avanti. Tra gli anni ‘60 e ‘70 – continua Pizzi – c’è stato uno sviluppo della volontà e il paese è uscito fuori dal grigiore. Negli anni ‘80, la mentalità era cercare uno sviluppo, ma si è diventati cattivi. Nei ‘90 tutto è cambiato con Mani pulite, la mentalità dell’italiano era avere amore, soldi, potere e denaro». Ma non dà la colpa a Berlusconi, che proprio in quegli anni segna la sua ascesa politica, ma all’uomo medio. E ora? «Adesso siamo alla corsa all’arricchimento».

Roma che tra i suoi ospiti più illustri – o forse il contrario – ha il Vaticano e i suoi inquilini. «Papa Francesco lo vedo molto di buon occhio, è un argentino. Uno che viene dalla campagna, di buona volontà. Una volta l’ho fotografato che si soffiava il naso. Tutti intorno si scandalizzarono, ma i prelati sono esseri umani. Spero che un giorno si capisca, che si sposassero e facessero figli. Forse sarebbero anche migliori».
Diverso il rapporto con il tedesco Ratzinger (Benedetto XVI) e il polacco Wojtyla (Giovanni Paolo II), considerati più severi. Al primo lo lega il ricordo di un uomo non particolarmente sorridente. Al secondo, invece, un servizio di quando lavorava per una testata americana. «Mi chiesero di ritrarre i dieci uomini più vicini al Papa. Io mi infilavo ovunque e così mi ritrovai in Vaticano. Mi ricevette l’arcivescovo Paul Marcinkus, aveva la pipa. Lo fotografai che fumava seduto da gran manager con un Rolex da capogiro al polso. Rimasi scioccato».
E se gli si chiede lo scatto più divertente non ha dubbi: «Una festa dei primi anni duemila. C’era anche Andreotti. Il padrone di casa offriva sempre penne all’arrabbiata e carciofi fritti. Quel giorno sul tavolo c’era anche la porchetta. Il cardinale Giovanni Battista Re impazzì e andò per primo a farsi il piatto. Lo immortalai. Ci hanno fatto anche il film La grande bellezza». E, proprio con una frase che potrebbe essere di Jep Gambardella, tira le somme sui suoi 87 anni: «Non sogno di fare niente oltre a quanto ho fatto perché ho fatto tutto».
