A vent’anni dall’uscita dell’album “Socialismo tascabile”, gli Offlaga Disco Pax sono tornati. “Strano che l’Unità non avesse detto niente”, come recita il frontman e cantastorie Max Collini in Cinnamon. La band si era sciolta nel 2014, dopo la morte di Enrico Fontanelli. Nonostante la lunga assenza dalle scene, “Socialismo tascabile” è diventato di culto, grazie alle numerose ristampe in formato fisico – tra CD e vinile – e ai milioni di ascolti accumulati sulle piattaforme di streaming. Il tour passa anche dal Monk di Roma, con due sold out il 15 e il 16 aprile, emozionando i fan, perlopiù quarantenni, con una nostalgia al quadrato.
Le storie giovanili dell’Emilia rossa già vent’anni fa suonavano stridenti con l’Italia berlusconiana, con il progressivo svuotamento delle urne, con la perdita di riferimenti ideologici. Oggi raccontare di quel “Piccolo mondo antico”, come cantano in Robespierre citando il romanzo di Antonio Fogazzaro, è quasi archeologia. E forse per questo è ancora più dolce. Nel 2012 il neologista americano John Koenig ha coniato il termine “anemoia” per indicare la nostalgia di un’epoca mai vissuta. Molti dei fan degli Offlaga Disco Pax non hanno l’età per cogliere a pieno i riferimenti. Eppure il racconto è universale e – sarà l’anemoia, sarà che il presente è quello che è – quell’Emilia Anni ’80, nebbiosa e stancamente socialista, finisce per mancare anche a chi è nato quindici anni dopo e 800 chilometri più a sud.
Collini e Daniele Carretti riportano in scena il “collettivo neosensibilista contrario alla democrazia nei sentimenti”, come amano definirsi, grazie anche all’innesto di Mattia Ferrarini. La musica è la stessa di vent’anni fa, di quando si formarono a Reggio Emilia: campionatori, chitarre distortissime, drum machine e linee di basso iconiche.
Tre, due, uno e si parte fortissimo con Kappler, la storia di un rapporto impossibile fra un docente ultraconservatore e uno studente ribelle. Il pubblico è ipnotizzato e risponde ai passaggi più iconici (“Suo figlio, signora… Ha la faccia come il culo!”). «Stamattina ero al colloquio con i professori di mio figlio e stasera sono qui a cantare Kappler», si legge in una storia Instagram ripostata dalla band. Da studenti a genitori, i brani degli Offlaga hanno accompagnato la vita dei loro fan, ma non smettono di raccontarne le piccole assurdità quotidiane, al confine tra ironia e dramma.
Il teatro canzone degli Offlaga è fatto anche di gesti, degli occhi sbarrati di Collini, di oggetti di scena minimali, ma carichi di simbolismo. Volano sulla folla i wafer Tatranky, simbolo di una Praga che ha rimosso ogni traccia del socialismo. O la ciabatta (una sola) marca De Fonseca, simbolo di un amore finito di cui resta un ricordo tenero da spartire, un trofeo che in pochi potrebbero vantare, “quasi nessuno nel mondo dei non feticisti”.
Dopo il primo saluto, a cui non crede nessuno, il trio ritorna sul palco per «omaggiare gli antenati» e suonare Allarme dei CCCP-Fedeli alla linea, da cui viene il basso di Cinnamon. L’eredità di un’Emilia alle prese con il difficile compito di andare oltre l’ideologia, ma restare sè stessa. Come succede a Cavriago, il paese alle porte di Reggio Emilia cantato in Piccola Pietroburgo, in cui è nata Orietta Berti e dove “C’è Piazza Lenin ed in mezzo, un busto di Lenin. Se uno ci pensa non ci può credere”.
Il concerto si chiude con Robespierre, il brano più famoso. Come in una messa cantata, il pubblico snocciola con entusiasmo crescente la toponomastica di Reggio Emilia citata da Collini: via Carlo Marx, via Ho Chi Minh, via Che Guevara, via Dolores Ibarruri. E poi un’istantanea, il frontman fermo davanti al pubblico con la base che prosegue e le dita che indicano il numero sei. È la percentuale che prendeva la Democrazia Cristiana nel suo quartiere.
Collini parla poco, le canzoni hanno già abbastanza parole. Lo fa, però, in occasione di uno dei pochi pezzi che non fanno parte di Socialismo tascabile: «Negli anni Settanta c’erano un mucchio di fascisti… Come adesso», dice per introdurre Sensibile, che racconta dei terroristi neri Francesca Mambro e Valerio Fioravanti. Una volta finita, si lascia andare all’«unico momento populista della serata: “Vaffanculo fasci di merda”».
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