C’è una scena in Il partigiano Johnny di Beppe Fenoglio in cui il protagonista, mentre attraversa i boschi delle Langhe, riflette sul senso della sua scelta di combattere. Non è solo questione di ideologia o di coraggio: è questione di dignità. Di non accettare l’assurdo, l’ingiustizia, l’oppressione come normalità. In quella pagina, come in tutta l’opera di Fenoglio, la resistenza si fa carne, si fa parola, si fa gesto narrativo. Non è solo un evento storico da ricordare, ma un’esperienza esistenziale che continua a parlare, a mordere, a interrogare chi legge. Perché la resistenza, in letteratura, è molto più di un tema: è un modo di stare al mondo.
Nella storia del Novecento italiano, la letteratura resistenziale ha rappresentato una delle forme più alte di impegno civile. Gli scrittori che hanno raccontato la lotta partigiana non lo hanno fatto solo per documentare i fatti, ma per dare voce a una verità morale. Primo Levi, ne I sommersi e i salvati, scrive: «Comprendere è impossibile, ma conoscere è necessario . La conoscenza, attraverso la narrazione, diventa allora uno strumento per opporsi all’oblio, per costruire una memoria collettiva che non sia compiacente, ma problematica, inquieta, viva».
Eppure, limitare la resistenza in letteratura alla sola stagione della lotta antifascista sarebbe riduttivo. La letteratura è, per sua natura, uno spazio di resistenza. Lo è ogni volta che rifiuta la semplificazione, l’omologazione, il conformismo. Ogni volta che scava nella complessità del reale, che dà voce a chi non ha voce, che mette in crisi il potere. Scrivere è un atto profondamente politico, anche quando non parla esplicitamente di politica. Come ricorda George Orwell, «ogni riga di un serio lavoro letterario è stata scritta con uno scopo politico».
Pensiamo alla scrittura di Antonio Scurati, che nei suoi romanzi su Mussolini (M. Il figlio del secolo, M. L’uomo della provvidenza, M. Gli ultimi giorni dell’Europa) ha scelto di raccontare il fascismo dal suo interno, attraverso un montaggio di fonti storiche e invenzione narrativa. È una scelta che ha fatto discutere, ma che non si può accusare di neutralità. Anzi, proprio quella scrittura ibrida, a cavallo tra storia e romanzo, mette il lettore davanti a una responsabilità: quella di riconoscere i meccanismi del potere, di vedere come il consenso si costruisce, come la violenza si normalizza. In un’intervista a la Repubblica, Scurati ha dichiarato: «Scrivere di fascismo significa oggi interrogarsi su come possa rinascere sotto nuove forme. Non è una ricostruzione storica, è una sfida morale».
La letteratura resiste anche quando si fa dissidenza nei regimi che la censurano, la temono, la perseguitano. Dalla poesia di Osip Mandel’štam nella Russia stalinista alle parole di Ngũgĩ wa Thiong’o, imprigionato in Kenya per aver scritto nella sua lingua madre, ogni pagina diventa un atto di ribellione. In questi casi, la parola è pericolosa perché libera. Perché afferma la dignità dell’individuo contro il dominio del collettivo. Perché dice ciò che il potere vuole zittire.
E poi c’è la resistenza più sottile, quella che si esercita ogni giorno contro l’indifferenza, contro l’oblio, contro il rumore assordante dell’informazione veloce. Gli scrittori che continuano a raccontare le storie dei migranti, dei lavoratori invisibili, delle minoranze oppresse, praticano una forma di resistenza silenziosa ma radicale. Scrivere diventa allora un modo per tenere accesa una luce, per opporsi alla cancellazione, per rifiutare la narrazione dominante.
Come ha scritto Marguerite Yourcenar:«Il compito dello scrittore non è di accettare il mondo così com’è, ma di cercare di trasformarlo». È questa la forza della letteratura: la sua capacità di immaginare altri mondi, altri futuri, altre possibilità. Di non accontentarsi della realtà, ma di interrogarla, di scardinarla, di sfidarla. In un’epoca in cui la verità è spesso deformata, la letteratura può ancora essere un presidio di resistenza etica.
Ma perché tutto questo sia possibile, servono lettori disposti a mettersi in gioco. Perché leggere, come scrivere, è un atto di resistenza. Significa rallentare, ascoltare, empatizzare. Significa accogliere punti di vista diversi dal proprio, entrare in mondi sconosciuti, uscire dalla comfort zone. In un tempo che premia la superficialità e l’immediatezza, la lettura profonda è già di per sé un gesto controcorrente.
La resistenza in letteratura, quindi, non è solo un tema da studiare o da celebrare in occasione delle ricorrenze. È una postura, un’attitudine, una scelta di campo. È lo spazio dove la parola si fa responsabilità, dove il silenzio viene rotto, dove l’ingiustizia viene nominata. In questo senso, ogni scrittore che sceglie di raccontare ciò che disturba, che ferisce, che divide, sta compiendo un atto di resistenza.
E mentre i libri continuano ad essere scritti, censurati, amati o dimenticati, resta il bisogno profondo di storie che ci aiutino a capire chi siamo, dove siamo, cosa possiamo diventare. Resistere, oggi, non è solo ricordare. È continuare a raccontare.