Era il 2011 quando all’Assemblea delle Nazioni Unite una risoluzione presentata da Frank La Rue, Special Rapporteur dell’Onu per libertà di espressione e opinione, poneva una domanda: Internet è un diritto?
Tra le pagine del documento la risposta che veniva data era affermativa e non solo perché è ormai parte integrante di più della metà delle persone nel mondo ma perché «Internet facilita anche la realizzazione di una serie di altri diritti umani». Mohamed Bouazizi aveva 26 anni quando decise di darsi fuoco davanti il municipio di Sidi Bouzid, un piccolo paesino della Tunisia di appena 40mila abitanti. Lo fece perché la polizia della città gli aveva sequestrato la merce che vendeva come venditore ambulante. Che sia stato un gesto politico contro il regime di Ben Ali, come fu quello di Jan Palach in piazza San Venceslao contro il regime sovietico, o semplice disperazione perché non sapeva più come poter mantenere la sua famiglia, non si saprà mai. Quello che invece sappiamo è che proprio tramite internet un gesto che altrimenti sarebbe rimasto isolato ha dato inizio alle Primavere Arabe, un periodo di sconvolgimenti politici, di rivolta e guerre civili capaci tramite il passaparola e la nascita di nuove piazze su Facebook o X (ex Twitter) di sovvertire. Lo stesso da settembre 2022 in Iran con la morte di Mahsa Amini e le conseguenti proteste che hanno portato il regime di Khamenei a bloccare internet e tutti i social pensando di riuscire a spegnere i riflettori sulla propria nazione.
Ma cosa accade quando l’accesso a internet non viene negato da un regime, ma semplicemente non esiste? È qui che entrano in gioco iniziative come Airband, il programma globale lanciato da Microsoft per abbattere il divario digitale. L’obiettivo è ambizioso: fornire connettività a 250 milioni di persone entro il 2025, di cui 100 milioni solo in Africa, il continente con la più alta percentuale di popolazione non connessa.
Dietro lo slogan di “connettere il mondo” c’è sia filantropia una visione strategica: Microsoft ha iniziato a investire in maniera significativa in Kenya, Indonesia, Messico e Malesia, non solo per costruire data center e infrastrutture digitali, ma anche per formare le competenze locali. Il senso dell’intervento è tecnologico sociale. L’interconnettività rende possibile la nascita di economie digitali autonome e di una cittadinanza globale partecipativa.
In Kenya, Microsoft collabora con fornitori locali di connettività per portare internet nelle aree rurali, combinando tecnologie wireless, fibra e satellitare. In Indonesia, le partnership si focalizzano sulla formazione delle competenze digitali nelle scuole e tra i lavoratori. In Messico, Airband ha attivato una rete capillare per garantire l’accesso a internet nelle comunità indigene più isolate, mentre in Malesia si lavora alla creazione di poli cloud per piccole e medie imprese.
Non solo Microsoft. Anche altri giganti della tecnologia stanno investendo per colmare il digital divide. Google ha lanciato il programma “Google for Africa” con un investimento di oltre 1 miliardo di dollari entro il 2030. In Nigeria, grazie al cavo sottomarino Equiano, le velocità di internet sono aumentate del 20%, secondo dati indipendenti. Inoltre, con Project Loon, Google è riuscita a ristabilire la connessione in aree colpite da disastri naturali o isolate, come in alcune regioni del Kenya, attraverso palloni aerostatici in grado di offrire accesso a internet a migliaia di utenti.
Meta (ex Facebook), con il progetto 2Africa, ha contribuito a ridurre sensibilmente i costi di connessione in Paesi come Ghana e Sudafrica. Con Express Wi-Fi, ha permesso a piccoli commercianti e scuole di quartiere in India e Mozambico di accedere a internet a prezzi accessibili, generando nuove opportunità di microimprenditorialità. E con Terragraph, in alcuni quartieri popolari di Manila e Città del Messico, ha portato una connessione stabile in zone precedentemente escluse dallo sviluppo urbano digitale.
Amazon Web Services (AWS), dal canto suo, sta espandendo i propri data center in Sudafrica, Medio Oriente e Sud-est asiatico, offrendo formazione tecnica gratuita tramite il programma AWS re/Start. E poi c’è Starlink, il progetto satellitare di SpaceX, che offre internet ad alta velocità in aree remote grazie a una costellazione di satelliti in orbita bassa. Starlink è già attivo in Paesi come Nigeria, Mozambico, Filippine e Ucraina, e sebbene più costoso di altre soluzioni, rappresenta una risorsa essenziale dove mancano le infrastrutture di base.
A fianco dei colossi tecnologici si muovono anche fondazioni come Bill & Melinda Gates Foundation, che finanzia progetti di inclusione digitale legati all’educazione e alla salute pubblica, e fondi di venture capital etici che supportano startup tecnologiche nei Paesi emergenti.
Tutti questi attori contribuiscono a una stessa visione: l’accesso a internet non è più un lusso, ma una condizione essenziale per l’inclusione economica, sociale e democratica. La vera sfida non è solo connettere, ma interconnettere: mettere in rete scuole, ospedali, imprese, governi e persone. Il diritto all’accesso può trasformarsi in un diritto alla partecipazione e allo sviluppo. Essere connessi non significa progresso tecnologico, ma anche una barriera in meno contro l’isolamento e la censura. Esempi come Bouazizi o Mahsa Amini sarebbero rimasti silenziati. Con internet, invece, diventano scintille in grado di accendere altri fuochi.
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