Una busta infilata tra le pagine di un volume, lasciata sulla scrivania o nella cassetta della posta. Dentro, una lettera. Giorgio Napolitano scrive a suo figlio senza fronzoli, ma con parole che lasciano il segno. «Sento il mondo sulle spalle», ripete in più occasioni. Da questi scambi privati prende forma il racconto. Il mondo sulle spalle (Laterza, 2024) è il libro scritto da Giulio Napolitano, figlio dell’ex presidente della Repubblica, e nasce proprio da quella corrispondenza silenziosa. Non è un saggio, né una celebrazione. È un viaggio personale, costruito a partire dai ricordi.
L’autore osserva il genitore da vicino, con occhi affettuosi ma lucidi. Lo racconta nei suoi gesti più comuni, nelle debolezze quotidiane, nelle assenze che diventano abitudine. Giorgio Napolitano – eletto per la prima volta presidente della Repubblica nel 2006 e scomparso nel 2023 – non è soltanto la figura istituzionale che ha segnato un ventennio, ma l’uomo che si agita perché ha perso le chiavi della macchina, che si lascia sfuggire un rimprovero secco al figlio piccolo che ha osato chiamarlo “buffone”. Una scena semplice, ma rivelatrice.
Tra gli episodi più riusciti, spicca quello all’asilo: Giulio stringe un patto con il bidello, diventerà tifoso della Lazio se vincerà contro la Juventus. Finisce 3-1, e così comincia una passione che durerà anni. Oppure la prima volta allo stadio: Lazio-Milan, 4-0. Il bambino urla per un rigore, il padre lo redarguisce scherzando con il colonnello dei carabinieri seduto accanto. Sono immagini nitide, capaci di raccontare molto più di una foto ufficiale o di un comizio.
Il mondo personale dell’autore si costruisce anche attraverso le sue passioni: il Subbuteo, l’almanacco Panini, le collezioni di francobolli a tema calcistico. È lì che trova un terreno tutto suo, lontano dalle rigide dinamiche familiari e dalla vita pubblica che aleggia dentro le mura domestiche. È il suo modo per sentirsi normale, per ritagliarsi uno spazio che non sia sempre definito da un cognome pesante.
In quelle stanze, però, passano anche figure che hanno segnato un’epoca: Pasolini, Eco, Strehler, Guttuso, Abbado. Non sono presenze fisse, ma punti di riferimento in un ambiente che mescola cultura e politica senza apparire elitario. Un contesto denso, ma mai ingessato. L’infanzia del protagonista si muove in mezzo a tutto questo, cercando ogni tanto vie di fuga, piccoli rifugi, qualche normalità.
Il ritratto che emerge dell’ex capo dello Stato è pieno di sfumature. È rigido, spesso teso, poco abituato alla leggerezza. Ma c’è anche una profondità silenziosa, una tensione morale che non si spegne nemmeno nei momenti più privati. Il figlio lo racconta senza mitizzarlo, con la naturalezza di chi ha vissuto tutto da dentro e vuole solo rimettere ordine nei frammenti rimasti.
Il cuore del libro sta proprio qui: nel tentativo di capire un padre importante, di rielaborare ciò che ha significato crescere accanto a lui, di trasformare i ricordi in qualcosa di condivisibile. Non c’è piaggeria, non c’è rabbia. Solo la voglia di mettere in fila le cose, con equilibrio.
Sullo sfondo, anche una certa idea di politica che non esiste più. Quella fatta di rigore, di fatica, di passione trattenuta. Di uomini che si caricavano davvero il peso delle istituzioni, e di chi, stando loro accanto, ne ha condiviso il carico senza averlo scelto. Questo lavoro restituisce tutto questo con chiarezza e misura. E, senza gridare, lascia il segno.