Il Black Mamba non morderà più. A 41 anni è morto Kobe Bryant, in seguito a un incidente di elicottero a Calabasas, città della contea di Los Angeles, in California. Il velivolo ha preso fuoco quando ha toccato il suolo. Nessun superstite fra gli altri otto passeggeri a bordo. Tra le vittime anche una figlia del cestista, la tredicenne Gianna Maria.
Se ne va una leggenda del basket, un gigante dello sport. Carisma, personalità da leader e un talento secondo solo alla passione per la “sua” pallacanestro, cui aveva dedicato una lettera d’addio il giorno del ritiro, nel luglio 2016. Guardia tiratrice, aveva anche giocato come playmaker e ala piccola, grazie a mentalità vincente e duttilità in fase offensiva.
Classe 1978, nel 1996 aveva esordito in NBA senza transitare per il college: scelto dai Charlotte Hornets al primo giro del draft come tredicesimo assoluto, era stato ceduto subito dopo ai Los Angeles Lakers. E nella Città degli Angeli era iniziata la leggenda del “Mamba”. Venti anni di carriera con cinque titoli NBA, 18 volte All-Star, 15 volte nel team All-Nba e 12 volte membro della formazione All-Defensive. A impreziosire i successi con la maglia 24, due ori con la nazionale statunitense ai Giochi olimpici di Pechino e Londra. Miglior realizzatore della storia della squadra californiana e quarto marcatore assoluto con 33.643 punti alle spalle di Kareem Abdul Jabbar, Karl Malone e LeBron James, il “Mamba” aveva perso il terzo gradino del podio appena la scorsa notte. Il “Prescelto” l’aveva superato, realizzando 29 punti nella sfida persa dai Lakers contro Philadelphia. E Kobe non aveva tardato a congratularsi con l’amico attraverso un messaggio via Twitter, inviato poche ore prima di quel tragico ultimo volo.
Continuing to move the game forward @KingJames. Much respect my brother ?? #33644
— Kobe Bryant (@kobebryant) 26 gennaio 2020
Amava l’Italia e si considerava un figlio acquisito del nostro Paese. Dall’età di sei anni fino ai tredici, giocò nelle strade, nelle palestre e nei campetti di Rieti, Reggio Calabria, Pistoia e Reggio Emilia, seguendo il tramonto della carriera cestistica del padre. Come ebbe modo di confessare in un’intervista rilasciata al Corriere della Sera poco dopo il suo ritiro dal basket: «se sono diventato Kobe Bryant lo devo alla mia infanzia italiana e a quanto ho appreso in un mondo così lontano e diverso dal NBA». Questo perché in Italia, a differenza che negli Stati Uniti, «ti insegnano a fare tutto, a diventare un giocatore completo. Non imparavo a passarmi la palla sotto le gambe o dietro la schiena, ma cominciavo a conoscere la tattica, a sviluppare una visione di gioco avanzata, che mi ha poi permesso di fare la differenza».
Così, anche quando realizzò il sogno di approdare nel campionato più importante del pianeta, il Mamba portava sempre l’Italia con sé: nei nomi delle sue figlie, nel tifo appassionato per il Milan di Van Basten, nel suo fluente italiano, divenuto una seconda lingua; nell’eterna nostalgia di Capri, della cultura e dell’arte di un Paese, dove sognava di tornare per insegnare basket. In veste di allenatore avrebbe potuto dare tutto sé stesso, anima, mente e corpo, alla passione più grande, da cui si era separato nel 2016, quando i dolori alla schiena lo convinsero a smettere. «Non riuscirei mai a giocare sapendo di non poter dare il 100%”, aveva addotto a motivo del suo ritiro».
Come spesso accade alle più grandi leggende dello sport, ad una vita intrisa di sudore e sacrifici, costellata di record e trionfi, si accompagnano vicende extra sportive che ne alimentano la notorietà. È quello che accadde nel 2003, quando venne arrestato per violenza sessuale ai danni di una ragazza di 19 anni. Finì sotto processo, conclusosi poi con il ritiro delle accuse da parte dei legali della ragazza. O quando, nel 2018, vinse l’Oscar per il miglior cortometraggio di animazione con Dear Basketball, basato sulle lettere di addio dedicate allo sport della sua vita, nel giorno del ritiro.
Del cestista Kobe Bryant si ricorderanno i successi, e le imprese sportive.
Dell’uomo, resterà il senso di un’esistenza compiuta. Di un destino intrecciato con la passione più grande. Quella di un bambino di sei anni, innamorato di uno sport.