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Esclusiva

Marzo 23 2020.
 
Ultimo aggiornamento: Aprile 28 2021
Il negar che nuoce

A ciascuno il suo: in ogni continente c’è, o c’è stato, un capo di governo che fin dalle prime avvisaglie dell’emergenza coronavirus si è speso per temporeggiare, minimizzare o negare l’evidenza, e spesso gli si è ritorto contro

Alexandr Lukashenko, Bielorussia 

«Sauna, vodka e lavorare!». È questa la ricetta anti-coronavirus made in Bielorussia. Nonostante dalla scorsa settimana si siano registrati i primi contagi, per adesso circa un centinaio, il presidente Alexandr Lukashenko non sembra preoccuparsi di quella che definisce solo una “psicosi” come tante altre, una roba già vista. Niente, insomma, che possa impensierire un uomo al potere da ventisei anni, come ha tenuto a dichiarare alla popolazione nelle scorse ore: «Ho passato molte situazioni di psicosi con voi e sono convinto che il panico possa colpirci più del virus stesso. Bevete tanta vodka, concedetevi la sauna e continuate a lavorare, questo ucciderà il virus nei vostri organismi».  

Il negar che nuoce
Alexandr Lukashenko, Presidente della Bielorussia dal 1994

Sulla scia di queste considerazioni, Lukashenko ha poi affermato, ripreso dall’agenzia Interfax, come la decisione di altri Stati europei di chiudere i propri confini agli stranieri sia una «assoluta stupidaggine». E così la Bielorussia non si ferma, e non si ferma nemmeno il suo campionato di calcio, iniziato lo scorso fine settimana (come da tradizione est europea si disputa dalla primavera all’autunno) con gli stadi regolarmente aperti al pubblico. Il capoufficio stampa della Federcalcio bielorussa, Alexander Aleinik, forte dell’appoggio politico del proprio Presidente, ha difeso la scelta di giocare dichiarando di averla adottata di concerto con l’Uefa, il principale organo amministrativo e organizzativo del calcio europeo. 
 

Donald Trump, Stati Uniti d’America e Jair Bolsonaro, Brasile 

Il negar che nuoce
Il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump con il Presidente della Repubblica brasiliana Jair Bolsonaro

7 Marzo, Tucker Carlson, volto storico di Fox News, dopo vari tentennamenti, raggiunge il Presidente Trump a Mar-a-Lago, la storica residenza in Florida per convincere a voce il Presidente che il Covid-19 fosse una minaccia di proporzioni catastrofiche. «Sapevo che quello non era il mio ruolo, ma ho sentito il dovere di farlo». Carlson sa bene che, oltre ad una manciata di “strateghi” e consiglieri personali, il Presidente Trump si fida di poche altre voci sul suolo americano, quando deve prendere decisioni vitali. Alcuni di questi sono anchor di Fox News. Questo mentre la brigata composta da Sean Hannity, Trish Regan e vari altri perseveravano sulla via della negazione, accusando i “mainstream media” di ingigantire la faccenda, Wall Street faceva uno dei peggiori tonfi della sua storia contemporanea e uno studio dell’Imperial College di Londra sosteneva che la strategia del laissez-faire, inizialmente prospettata da Trump e dal suo omologo inglese Johnson avrebbe portato alla morte stimata di circa 2,2 milioni di cittadini americani.  

Il castello di carte della fragile e improvvisata amministrazione Trump inizia a traballare. Inizia col negare i suggerimenti e i campanelli d’allarme dell’infettivologo Anthony Fauci, capo del National Institute of Allergy and Infectious Diseases, che già durante un’audizione al Congresso due settimane fa ribadiva che il sistema sanitario americano «non è adeguato a ciò di cui abbiamo bisogno in questo momento». Il Presidente Trump, il suo staff e molti membri repubblicani hanno però deciso di ignorare gli avvertimenti. «Nulla è chiuso, la vita e l’economia continuano, e noi continueremo a stringerci le mani, perché nella nostra “line of work” si usa così» avevano detto in coro Trump e il vice-presidente Mike Pence, nominato – senza titolo alcuno – a capo della gestione dell’emergenza coronavirus.  

La presenza e l’autorevolezza di Fauci sono emerse subito per contrasto con la figura e con la retorica del Presidente. Durante i pochi briefing istituzionali con la stampa, con voce posata ma sicura, il settantenne infettivologo ha spiegato, provato a rispondere alle domande, in maniera puntuale, senza spocchia né polemica. Ha iniziato ad essere invitato in vari salotti televisivi, fino al giorno in cui Trump ha iniziato a mormorare «questo Fauci sta proprio diventando una star televisiva». Così dal giorno dopo anche l’autorevole scienziato è sparito dai successivi briefing, come accade ad ognuno che provi a mettere in ombra Mr. President.  

Lo stesso giorno esatto, il 7 marzo avviene anche un altro imprevisto. La delegazione brasiliana, ambasciatore, staff, comunicazione e il Presidente Jair Bolsonaro incontrano il Presidente Trump nel suo buén retiro. Giorni dopo, il terrore. Fabio Wajngarten, il capo ufficio stampa del presidente brasiliano, anche lui seduto al tavolo con i due capi di stato, risulta positivo al coronavirus. Iniziano a circolare ipotesi e anche fake-news che danno O Capitão, come positivo a sua volta. Si scatena il panico. Dopo poche ore arriva la smentita, prima da parte dello stesso figlio del Presidente, Carlos: «mio padre si è sottoposto al test e l’esito è stato negativo», poi dallo stesso capo di Stato, che con la sua solita eleganza ha deciso di corredare il post con una foto in cui faceva il gesto dell’ombrello. Il Presidente ha continuato, nei giorni successivi, a minimizzare e ridicolizzare il problema spesso con uscite infelici anche su Paesi esteri, come quando ha affermato «l’Italia è un Paese come Copacabana, dove in ogni appartamento ci sono un anziano o una coppia di anziani, quindi sono molto più sensibili, molte più persone muoiono». Il Presidente del Paese sudamericano che alla data attuale conta il numero più alto di contagi litiga con i governatori locali che prendono di loro autonomia scelte più drastiche delle sue, non crede che il Covid-19 rappresenti una minaccia seria per il sistema sanitario federale e continua a dirsi più preoccupato per le conseguenze economiche dell’emergenza. Ma è nella sua ultima conferenza stampa che ha superato ogni limite: «Sono sopravvissuto a una pugnalata in pancia – durante la campagna elettorale per le presidenziali – non sarà certo uma gripezinha, una tosse da quattro soldi, a spaventarmi». 

Boris Johnson, Regno Unito 

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Il Primo Ministro britannico Boris Johnson

In Gran Bretagna l’approccio al diffondersi del coronavirus ha suscitato aspre polemiche: il 13 marzo, mentre l’Italia emanava i primi provvedimenti volti alla chiusura sempre più drastica delle attività produttive del Paese, seguendo il modello di contrasto all’epidemia adottato in Cina, oltre Manica il Primo Ministro inglese Boris Johnson si rivolgeva alla nazione avvertendo di «prepararsi a perdere qualche familiare». La strategia del consigliere scientifico del premier, sir Patrick Vallance, puntava a lasciare che il virus si diffondesse liberamente, in modo da arrivare ad infettare circa il 60% della popolazione: questo avrebbe garantito, secondo Vallance, l’ottenimento della cosiddetta “immunità di gregge”, che avrebbe reso i cittadini immuni dal ritorno della malattia, destinata a ripresentarsi con cadenza stagionale. Soprattutto, il piano avrebbe dovuto evitare i costi straordinari e le pesanti ripercussioni economiche sofferte dai Paesi in quarantena, attraverso l’attuazione di misure di contrasto graduali che non portassero al collasso del sistema sanitario: distanziamento sociale, raccomandazioni a evitare assembramenti, autoisolamento di soggetti sintomatici.  

Quella che sarebbe dovuta essere una strategia vincente sul lungo periodo, è però stata abbandonata dopo meno di una settimana. Le convinzioni di Vallance, oltre ad essere criticate da gran parte della comunità epidemiologica internazionale (su tutti, l’Organizzazione Mondiale della Sanità) dovevano fare i conti con la natura particolarmente aggressiva del coronavirus e con le sue complicanze: polmonite, sindrome respiratoria acuta grave e insufficienza renale. Una serie di sintomi che richiede necessariamente il ricovero ospedaliero. A spaventare Johnson e a indurlo a una brusca inversione di rotta hanno contribuito anche le catastrofiche previsioni della Pbe, l’agenzia inglese per la salute pubblica: mezzo milione di morti e otto milioni di contagi nel giro di un anno. Puntare all’immunità di gregge (peraltro attraverso le infezioni dirette e non la vaccinazione di massa) avrebbe significato, secondo le stime dell’agenzia, trasformare il Regno Unito in uno scenario di manzoniana memoria.  

Così, già il 20 marzo, Londra ha ritenuto che la scelta migliore per il bene del Paese fosse quella di seguire l’esempio italiano: totale lockdown, come dicono da queste parti. Chiusura di scuole, università, uffici e persino dei bar e dei pub, i luoghi di aggregazione per eccellenza; invito rivolto a tutti i cittadini a restare in casa, mentre il governo si dice disposto a pagare l’80% degli stipendi dei lavoratori britannici per la durata della quarantena. Tutto questo mentre la curva dei contagiati e delle vittime sembra seguire, con un evitabile ritardo, quella del resto d’Europa.