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Esclusiva

Marzo 31 2020.
 
Ultimo aggiornamento: Aprile 25 2020
La guerra del petrolio tra zar e sultani

Tra Arabia Saudita e Russia è scontro sul costo dell’oro nero. A rischio l’industria statunitense dello shale oil. Per l’Italia, scenario favorevole

Il mondo si ferma e il prezzo del petrolio crolla al di sotto dei 20 dollari al barile. È successo ieri, 30 marzo, quando il West Texas Intermediate (Wti), il greggio del Texas utilizzato come parametro di riferimento negli Stati Uniti, è sceso a 19,92 dollari (18.1272 euro). Il Brent, il barile del Mare del Nord, ha perso più del 9%, arrivando a 22,58 dollari: la performance peggiore dal novembre 2002. Sono gli effetti del nuovo coronavirus Sars-Cov-2 ma anche della crisi geopolitica in atto.

All’inizio di marzo, l’Arabia Saudita, principale esportatore di petrolio al mondo, ha avviato un conflitto sui prezzi dell’oro nero contro la Russia. I valori del greggio, in quell’occasione, calarono del 30%. L’obiettivo era convincere l’Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio e Mosca (riuniti dal 2017 nell’Opec+) a tagliare l’offerta per far fronte al rallentamento economico. Il calo della produzione in Cinadriver principale della domanda petrolifera, aveva infatti causato il crollo della richiesta di greggio e la conseguente svalutazione dei prezzi. 

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Al rifiuto di Mosca, Riyadh aveva risposto con un incremento dell’offerta di petrolio e un taglio netto ai costi, così da riuscire a vendere tutta la sua produzione e costringere la Russia al negoziato. La conseguenza è stata uno shock della domanda senza precedenti storici, che ha portato alla chiusura di oleodotti, raffinerie, impianti di stoccaggio e «di almeno 0,9 milioni di barili al giorno, di chiusure annunciate nei pozzi, con il vero numero probabilmente superiore e in crescita di ora in ora», secondo la banca statunitense Goldman Sachs, che due giorni fa ha inviato una nota sul tema ai clienti istituzionali. 

La Russia, di contro, avrebbe preferito aspettare l’impatto dell’epidemia sulla domanda di petrolio prima di accettare il piano saudita. Ma avrebbe anche desiderato testare l’industria statunitense dello shale oil, il petrolio ricavato da rocce di scisti bituminoso che negli anni aveva privato Mosca e Ryadh del monopolio dell’offerta di idrocarburi. Scisti che ancora oggi restano difficili da trivellare. 

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Il presidente russo Vladimir Putin. Photo credits: ANSA

Secondo Elliot Hentov, capo della ricerca di State Street (società statunitense di servizi finanziari e bancari), «la decisione dell’Arabia Saudita di lanciare una sfida sul prezzo del petrolio contro la Russia ha portato i mercati in modalità panico, aggiungendo ulteriore incertezza a un mondo già in preda all’epidemia». 

A differenza degli altri Paesi, Riyadh può contare su una capacità di riserva elevata, che gli consentirebbe di aumentare rapidamente la produzione. Non a caso, continua Hentov, «Saudi Aramco [la compagnia petrolifera nazionale saudita, ndr] ha annunciato obiettivi di approvvigionamento totale che includono lo svuotamento di alcuni dei suoi inventari globali. Si prevede che anche altri Paesi del Golfo utilizzeranno la loro capacità inutilizzata». Il Regno saudita ha già comunicato l’intenzione di aumentare le esportazioni di 600.000 barili al giorno, portando la quota oltre 10,6 milioni di barili quotidiani. E l’obiettivo, secondo gli operatori finanziari, è quello di toccare i 12 milioni.

Spiazzato, dunque, il presidente statunitense Donald Trump. Al punto che Exxon, una delle principali compagnie petrolifere statunitensi, ha deciso ieri di incrementare l’esportazione in uno dei giacimenti più importanti della nazione, quello di Baton Rouge, in Louisiana. La riduzione del prezzo del greggio è un tema caro al suo elettorato, ma un taglio prolungato potrebbe avere conseguenze disastrose sugli Stati produttori di energia come il Nord Dakota e il Texas. Secondo Eugenio Dacrema, esperto di Medioriente e Nordafrica di ISPI (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale), «a meno che il tycoon non decida di sostenerli con fondi statali, i produttori di shale oil rischiano la bancarotta». 

Ci sono Paesi poi, come Giordania, Libano ed Egitto, «con un Pil che dipende per almeno il 10% dalle rimesse dei cittadini che lavorano nei Paesi del Golfo», continua. «Questi rischiano di tornare in massa nei loro Stati di origine, infoltendo le file dei disoccupati». 

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Il re saudita Salman bin Abdulaziz Al Saud. Photo credits: ANSA

A beneficiare nel breve periodo del calo dei prezzi saranno gli Stati consumatori di petrolio, come l’Italia: «Si tratta di dato positivo perché vuol dire che quando si tornerà a produrre, i prezzi rimarranno bassi per un po’, sotto i 50 dollari almeno». 

«È difficile che l’Arabia Saudita non torni sui suoi passi, visto che ha un deficit fiscale molto alto. Le pressioni affinché si sieda al tavolo delle trattative con Mosca sono molte», sostiene Dacrema. I due produttori non sono in grado di continuare la guerra dei prezzi «soprattutto perché i russi non possono compensare il prezzo del petrolio più basso con una maggiore quota di mercato», spiega Hentov. 

Il braccio di ferro tra Arabia Saudita e Russia, quindi, può essere solo la prima fase. Ma, considerato che sta impattando anche verso l’altro lato dell’Atlantico, è possibile che Washington decida di intervenire in maniera massiva, amplificando le schermaglie in corso. Un’opzione, questa, non esclusa da buona parte degli analisti finanziari di Wall Street.