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Esclusiva

Aprile 25 2020.
 
Ultimo aggiornamento: Marzo 29 2021
I giorni veri di Giovanna Zangrandi

La vita nel diario, la scrittura nella vita. Zangrandi plasma l’immagine vera di sé stessa attraverso un documento della Resistenza in Pieve di Cadore

Il suo vero nome è Alma Bevilacqua. Anzi era. Alma era la figlia di una famiglia borghese della pianura emiliana, Giovanna Zangrandi è una partigiana di Cadore. Laureata in chimica nel 1933 all’università di Bologna, a ventitré anni stava per iniziare la carriera accademica, quasi del tutto appannaggio degli uomini. Un ambiente che le sta stretto, come tutto. Quattro anni dopo perde la madre, il padre era morto suicida quando Alma era una bambina, e insieme al nome decide di cambiare vita. 

«Me ne andai lontano da quelle larve superstiti, fantasmi, tombe e loculi di marmo verde, via, tra gente viva, semplice, forte, senza gretti egoismi di clan, senza caste». Così si legge in una pagina del 1937. Insegna scienze nella scuola di Cortina d’Ampezzo e inizia a scrivere un diario in modo regolare. La montagna diventa la patria di adozione, lo spazio della libertà e della scoperta della scrittura. 

I giorni veri è infatti un diario, la scrittura intima degli anni 1943-1945 che Giovanna, nel libro solo Anna, trascorre come staffetta partigiana sulle montagne di Cortina e dintorni, vicino ai territori che i tedeschi avevano annesso con l’armistizio dell’8 settembre 1943. Nella brigata “Calvi”, Anna si occupa di trasmettere ordini e notizie, di trasportare le armi e i materiali necessari, di diffondere la stampa clandestina. Ogni giorno può passare la frontiera del Reich sfruttando il suo ruolo di professoressa, ma dura poco, entra nel mirino dei tedeschi ed è costretta a ritirarsi in montagna, nella zona delle Marmarole, insieme agli altri della brigata. 

«Poi il fuoco si spegne, resto sola. Nel saccopiuma caldo ho intorno la notte delle Marmarole. A volte, viene dentro, tra i rami, il viso di quell’uomo che disse che non voleva donne fino a primavera; vedo brillare nel buio i suoi occhi, come sono, dorati e selvaggi: per essi gli demmo il nome Tigre. Talora mi mandavano da lui con gli sci, specie se occorreva guidare qualcuno di là, ma era di solito gente che alla sesta o quinta ora di marcia crollava; una pena doverli tirare in piedi quando, maldestri, cadevano». 

L’emergenza della lotta partigiana cambia i paradigmi, impone nuove gerarchie. Comandano i capi della resistenza, ma sulle montagne governa chi sa sopravvivere, «fa un certo effetto sentirsi ricordare d’essere una donna». Dal diario emerge l’eccezionalità e la crudezza dei “giorni veri”, in cui gli sconosciuti diventano fratelli e i fratelli possono diventare sconosciuti. Dalle memorie di Anna emerge anche con estrema durezza il ruolo della natura e della montagna come madre e matrigna, luogo che pulsa della stanchezza dei partigiani in traversata. 

«Valicai tutta la catena, una notte, con i miei vecchi sci, facendomi una pista su sentieri scomparsi, riuscii a scovare l’ultimo uomo che forse aveva ancora dentro qualcosa di vivo, uno che dice: Zitta e dura tu. Tieni bene a mente dov’è nascosta la roba rimasta, e se qualcosa succede vieni a dirmelo». 

Con la fine della guerra svanisce anche il sogno d’amore a causa della morte del comandante della brigata, il Tigre dagli «occhi dorati», Severino Rizzardi. Dopo il 25 aprile 1945 gli appunti di Giovanna restano nascosti «dentro uno scatolotto da maschera antigas… insieme a promemoria cifrati, sfoghi personali o sdoppiamenti di solitudine» come si legge nel prologo de I giorni Veri

I giorni veri è infatti un diario a distanza, perché verrà pubblicato vent’anni dopo gli eventi vissuti, da Mondadori nel 1963. Intanto Zangrandi dall’alta montagna si trasferisce a Borca di Cadore, dove si dedica a tempo pieno alla scrittura. Fonda e dirige il giornale locale e nel 1954 si afferma come scrittrice vincendo il premio Grazia Deledda con I Brusaz. I vent’anni di distanza servono a Giovanna per una ricognizione lucida, per scegliere di riesumare gli appunti del periodo più intenso della sua vita. A vent’anni di distanza le esperienze di quegli appunti vengono rivissute e passate al vaglio, riordinate e incorniciate dal prologo, una riflessione sulla Resistenza e sulla propria identità e bisogno di esprimersi. 

Sembra che già nelle loro originarie espressioni orali le res gestae dei partigiani subissero un processo di trasformazione. Nella prefazione che Italo Calvino nel 1964 aggiunge al suo Il sentiero dei nidi di ragno si legge che quelle «storie appena vissute si trasformavano in storie raccontate la notte intorno al fuoco» e che «la carica esplosiva di libertà che animava il giovane scrittore non era tanto nella sua volontà di documentare o informare, quanto in quella di esprimere». 

L’espressione delle memorie di Giovanna proviene da «quadernini marciti in buche di sassi», sempre dal prologo, e l’attributo “veri” nel titolo ha un preciso significato. «Si tratta di un diario in cui fatti, luoghi e persone furono veri», autentici ma mediati dal tempo. La retorica è poca, l’emotività temperata, la scrittura mette al centro gli spostamenti, le lunghe traversate, a piedi o sugli sci, una scrittura concreta che sa non cadere in una scarnificazione fredda ma lascia spazio a pochi e meditati picchi di commozione. Una scrittura intima ma non ermetica, in cui l’autrice offre senza veli le chiavi di lettura di sé stessa, senza però intrappolare il lettore in uno schema autobiografico statico. 

A Giovanna Zangrandi viene diagnosticato il Parkinson proprio quando sta finendo la stesura de I giorni veri. E sempre a questo diario si appella per chiedere aiuto nella malattia: Arturo Fornasier, il giovane “Volpe” de I giorni veri, con cui Anna scappò nel 1944 da un rastrellamento nazista, è l’unico che vuole accanto fino alla fine.

Nel prologo si legge anche un desiderio, l’ultimo, poiché ultima è stata la fine della scrittura de I giorni veri. «Vorrei che dalla crudezza pulita della realtà uscisse una testimonianza e una moralità che molti miei contemporanei oggi o rinnegano o soffocano nell’adipe dei vari miracoli economici, e che molti giovani non sanno».