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Esclusiva

Aprile 7 2022
Quella «piccola persona» chiamata figlio

Da Padre padrone a C’mon C’mon il cinema e le storie che raccontano l’evoluzione della paternità

La sera a Jesse piace giocare a fingersi orfano. Raccontare i genitori, il padre, affetto da disturbo bipolare, e la madre, lontana da casa per prendersi cura del marito. Lo zio Johnny si ritrova a essere il suo nuovo interlocutore, a sfidare la solitudine e la ferrea indisposizione al resto del mondo. Tra l’autobiografia e il puro realismo del bianco e nero, C’mon C’mon di Mike Mills racconta una paternità coatta e la nascita del legame con un bambino che, nonostante i suoi nove anni, non è altro che “una piccola persona”.

Interpretato da Joaquin Phoenix, Johnny è un giornalista radiofonico che, lungo gli Stati Uniti per un nuovo programma, intervista bambini per sapere cosa pensino del futuro. Lui non sa cosa “padre” significhi. Non lo ha mai vissuto e non era nei suoi piani finché, quasi con forza carsica, Jesse penetra nella sua vita. Degli obblighi sconosciuti e una relazione da costruire. Una relazione tra padre e figlio che, dopo anni di ricerca di un nuovo centro di gravità, è costretta a ricrearsi.

A 29 anni Gabriele ricorda i pomeriggi passati con il padre, entrambi bendati, seduti al centro del salone e impegnati nell’indovinare canzoni e melodie. Tanto gioco, ma poche emozioni, ancora affidate alla sfera del nido materno. Infatti, per Gabriele, «l’unica cosa che forse vorrei migliorare è quella di avere il coraggio di mostrare le mie debolezze perché tutti le abbiamo e da figlio, in alcune situazioni, l’ho percepito».

C'mon C'mon
Woody Norman, Joaquin Phoenix (L-R) in C’mon C’mon. Credits: Notorious Pictures©

Giuseppe di anni ne ha 30. Il padre, la persona più integerrima che conosca, ha il suo stesso carattere. Come due autoscontri, si divertono a mettere in scena la loro testardaggine. «Non considero il nostro un rapporto di amicizia ma sicuramente c’è un profondo rispetto reciproco». Un padre assente per lavoro, che si è ritagliato piccoli sprazzi di condivisione con Giuseppe, come quando «mi ha spinto ad andare in bici senza aiuti. Tant’è che probabilmente pratico ciclismo perché è un ricordo indelebile che ci lega».

Se C’mon C’mon mostra una relazione che tenta di conquistare il suo equilibrio, di adattarsi su un piano di rispetto ed emotività, la pellicola del 1978 dei fratelli Taviani Padre padrone scosse l’Italia per la realtà che rappresentava. Sullo sfondo degli anni Quaranta, Efisio strappa Gavino dai banchi di scuola e lo educa all’arte della pastorizia. Nella campagna sarda, il figlio viene catapultato nel completo isolamento dalla società. Analfabetismo, violenza e persino i rapporti sessuali con gli animali ne sono conseguenze. Gavino riesce a resistere finché non avviene uno strappo, la necessità di fuggire dal padre, anche se questo comporta l’arruolamento e la partecipazione alla Seconda guerra mondiale.

All’uscita del film, di fronte ai colpi che Efisio e Gavino si sferravano al momento del rimpatrio, Luca aveva vent’anni. Il padre, funzionario pubblico al comune della città, era stato forgiato nella precisione e nell’impeccabilità, dalla grafia all’ordine. Tra di loro «era un continuo scontro, non riuscivamo a capirci in nessun modo. Mi dedicava attenzioni solo quando mi ribellavo e doveva riportarmi sulla strada che lui voleva per me».

La violenza non era esplicita, ma giocava lungo il piano dell’intimidazione. «Il padre era un caposaldo, una figura apicale della famiglia. Ciò che diceva diventava quasi legge. Per me, e la nostra generazione, molte volte fare l’opposto era quasi una necessità. A ogni infrazione giungeva una minaccia. Era un uomo esile e lo sfidavo, ma la sola possibilità che facesse ciò che mi diceva mi terrorizzava». Non l’ambizione di essere migliore, ma solo diverso. «Quando pensavo all’essere padre, volevo essere tutto ciò che il mio non è stato per me».

C'mon C'mon
Omero Antonucci e Fabrizio Forte (L-R) in Padre padrone

Ascoltando la voce di Jesse dal suo registratore, Johnny preme play e inizia a parlare. Nell’ennesima stanza d’albergo di una città degli Stati Uniti, racconta il tempo che hanno passato insieme, le passeggiate nei parchi, i gelati rubati prima di aver finito le verdure, i discorsi fatti prima di dormire. La capacità di Jesse di esprimere le sue emozioni lo sorprendeva. Invidiava le abilità di quella piccola persona, quelle cose che a lungo aveva pensato come una debolezza e che, solo ora, vedeva come una necessità. E il giocare all’orfano iniziava a mancargli.