Attenzione! Questo articolo è stato scritto più di un anno fa!
!
Esclusiva

Gennaio 24 2023
Rush! La via dei Måneskin è l’ironia

Punk rock, hard core, ma anche mainstream pop. Il primo album internazionale della band romana gioca col successo

C’è questo brutto vizio tutto italiano per cui il rock non s’ha da fare. Il rock – anglosassone o americano che sia – è sempre qualcos’altro. Non importa chi lo fa, in ogni caso sbaglia. Più che un genere, pare che il concetto di rock venga così ingessato in un canone: dalle fattezze irremovibili e dalle forme tonde e chiuse. Se poi a questo canone aggiungiamo il successo, fatichiamo a guardare con equilibrio un fenomeno: oggi i Måneskin si pongono su questa linea sottile, in bilico tra un (fu) cadavere e una fama da miliardi di dollari.

E a questa gloria nessuno sembrava crederci: una volta passato il testimone – un anno dopo la loro consacrazione mondiale – ai nuovi vincitori della musica europea, con l’esibizione all’Eurovision di Torino, c’è chi profetizzava un esaurimento da fama dei 15 minuti – come ben ricorda il critico musicale del Guardian. Invece sono arrivate le collaborazioni con Baz Luhrman e Iggy Pop, gli MTV Awards e i tour continuamente sold out. Hanno rilasciato quattro singoli in un solo anno e Rush! è la prima loro grande prova internazionale – dopo “Il ballo della vita” (2018) e “Il Teatro dell’Ira” (2021).

Ma cosa ne fanno, i Måneskin, del corpo del rock in questo nuovo esordio? La risposta è che dipende da come lo si guarda. La band non ha mai nascosto la propria predilezione per il mainstream – d’altronde, sono nati sotto il segno di un talent – e di questa sono grandi affinatori di tecnica. In “Rush!” si lasciano alle spalle i ritmi funk rock degli inizi, orientandosi verso l’hard rock – chitarre distorte e bassi pesanti (Gasoline su tutte) – o il punk rock (la bellissima Mark Chapman). E se c’è una cosa meravigliosa, è che si divertono come matti. È probabilmente questo il plus di questo album che – indubbiamente – presenta alti e bassi. I momenti più deboli sono i lenti (Timezone e If Not For You) in stile di ballad: forse è l’inglese, ma rispetto ai suoi equivalenti italiani, questi brani son molto convenzionali – anche nei testi – e più vicini al citato canone che a una sincera rielaborazione d’influenze.

Il rock come ballo della vita

La forza dei Måneskin è che sanno di non potersi prendere “sul serio”. Il rock non può più essere quello che è stato, almeno non che cosa ha rappresentato, in ordine, prima negli anni, 60, poi nei 70, e così avanti. Il sound della band romana non nasce come underground, e sarebbe sbagliato giudicarla con questo metro. Non avrebbe senso né sarebbe il caso, perché, per osare con i paragoni, sarebbe come sostenere che, poiché non scriveva melodie, Bach non era capace di scriverle. Semplicemente, a lui non interessava altro che il rapporto matematico tra le voci.

Rush! è un’intelligente Bla Bla Blaper citare Damiano – You said I’m ugly and my band sucks / But I just got a billion streaming song / So kiss, kiss my / Bu, bu, bu, bu, bu, bu, butt. La canzone in questione è un riff deliziosamente insopportabile, come il mondo del successo al quale i musicisti strizzano l’occhio a loro modo. Timbri estremi, testi eccessivi – a volte volgari, conditi con ironia e con molto compiacimento: “Rush!” è un patchwork di influenze che – se non originali – rendono i 17 brani di cui è composto esercizi non banali.

Damiano è un eccellente autore di hooks – ganci – da cui è impossibile non rimanere contagiati, sia musicalmente che come paroliere (Gossip, Mamma Mia, Supermodel). Ama giocare con il canone – sesso, droga e rock ‘n roll, di cui i testi sono pieni zeppi – e farne spettacolo. Incarna il mito delle vecchie rockstar consapevole che non è più “nel tempo” di esserlo – e vi rinuncia in Timezone, dove the fame has no meaning – e invita chi ascolta a unirsi a lui al Ballo della vita”.

Leggi anche: Il matrimonio segreto dei Måneskin