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Esclusiva

Marzo 1 2023
Rivalutare l’horror e i suoi ruoli femminili agli Oscar

Tra le performance attoriali migliori dell’anno due sono di attrici in film di genere, ma i premi cinematografici si ostinano a ignorarlo

Paura e disgusto, sono due emozioni primarie quelle alla base dell’horror, il più potente e il più politico genere cinematografico. L’horror raccoglie e dà diverse forme ai timori della quotidianità, alle insicurezze della società e della politica, riplasmando tutto in incubi e in epiloghi sanguinari, da combattere o da cui fuggire. È anche l’unico genere in cui la presenza femminile è un canone fisso, con dei tratti ricorrenti ed essenziali, che diventano elementi di riconoscimento dello stesso, come la final girl.

Intuendolo già dalla traduzione letterale, la final girl è l’ultima sopravvissuta di un ipotetico gruppo di personaggi, la ragazza che si trova ad affrontare da sola il mostro o il killer. Spesso, secondo il linguaggio codificato dell’horror, è un personaggio puro, innocente, vergine, contrapposto al male. La sua particolarità consiste nel punto di vista verso cui costringe lo spettatore. Per convenzione infatti la final girl non è al centro della trama fino a quando non si impossessa di un’arma. In quel momento porta lo spettatore a identificarsi con lei, perché detiene il potere. Questo slittamento di prospettiva – che di solito va da un personaggio maschile a uno femminile – ha interessato molto negli ultimi trent’anni le teorie femministe del cinema, soprattutto a partire dall’opera di Carol J. Clover, Men, Women, and Chain Saws (1992).

L’horror, o meglio ancora il sottogenere slasher, è l’unico genere cinematografico che per convenzione restituisce potere di autodeterminazione alle donne nel corso della narrazione, per questo i personaggi femminili sono spesso i più interessanti e i più politici, come ha affermato di recente anche l’attrice Mia Goth (protagonista quest’anno di X – A Sexy Horror Story e Pearl, entrambi di Ti West). Nella storia del cinema, tuttavia, sono anche i ruoli più spesso ignorati dai premi e sottovalutati dalla critica.

E se per Mia Goth, dopo il debutto di West a Venezia, si auspicava almeno una candidatura ai maggiori premi della stagione, mai arrivata, è l’assenza di Keke Palmer agli Oscar a pesare di più. Protagonista di Nope, terzo film di Jordan Peele, Palmer si inserisce nel ben definito universo ironico e terrificante dell’autore afroamericano, in cui l’orrore della narrazione rappresenta sempre un elemento specifico di denuncia sociale.

La sua performance potente, esuberante, divertente – nonostante la tensione costante del film – è tra il meglio che la produzione statunitense ha offerto quest’anno, oltre che uno dei ruoli femminili più interessanti, soprattutto nel rapporto con il fratello e con gli altri personaggi maschili. Rimanendo nel circuito ristretto del cinema di genere non ha avuto la risonanza che avrebbe meritato e ha confermato che sì, qualcosa deve cambiare – come si augurava Mia Goth poche settimane fa – perché, finché l’horror sarà guardato con superbia dal resto dell’industria, a perdere davvero sarà solo il pubblico.

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