Nell’accordo si prevede che vengano rilasciati in una prima fase 33 dei 98 ostaggi, partendo dai più fragili. Due bambini, cinque donne, gli uomini over cinquanta, feriti o ammalati. Non si sa se siano tutti vivi. Mentre dalle carceri israeliane uscirebbero centinaia, forse migliaia di detenuti palestinesi, tra cui 150 destinati all’ergastolo. Ci sarebbe anche un graduale ritiro delle truppe, specie a partire dalle zone più densamente popolate. Le truppe lasceranno il Corridoio Netzarim e la popolazione potrà rientrare nelle aree di origine. Il ritiro non si concluderà finché non saranno restituiti tutti gli ostaggi, vivi o morti. Con l’entrata in vigore della tregua, Israele garantirebbe l’ingresso nella Striscia di Gaza di circa 600 camion di aiuti umanitari al giorno, grazie anche alla riapertura del valico di Rafah sul confine con l’Egitto.
«La prima cosa che vorrò fare sarà tornare a casa mia, anche se restano solo macerie lì», ha raccontato a Zeta Sami Abu Omar a commento dell’ipotesi di tregua, un uomo palestinese la cui vita è stata interrotta il 7 ottobre. La prospettiva di un cessate il fuoco ora gli ha offerto un barlume di speranza. Abu Omar sogna di tornare «nei quartieri dove ha vissuto tutta la mia vita, camminare per le strade senza paura di essere bombardato, sentirmi sicuro». Un desiderio che non è solo personale, ma condiviso da tutti coloro che, come lui, vivono in questa condizione: «Speriamo nella tregua. Vogliamo tornare dove eravamo, anche se non c’è più nulla».
Sami Abu Omar prima della guerra viveva una vita relativamente tranquilla. Aveva un lavoro, una casa a Khan Younis di 200 metri quadrati e le sue figlie frequentavano la scuola, chi alle medie, chi all’università. Ma tutto è cambiato con la risposta di Israele all’attacco di Hamas: «Ho smesso di fare tutto ciò che facevo prima e ho iniziato a resistere». Le parole di Sami raccontano un’esperienza di dolore e lotta. L’incertezza sul futuro della Striscia è palpabile: «È stato un anno e mezzo molto difficile. Abbiamo affrontato situazioni che non avevamo mai vissuto prima», dice. La guerra ha comportato un’evacuazione totale: «2 milioni e 200 mila persone costrette ad abbandonare le loro case per rifugiarsi in tende e ripari di fortuna. Anche le scuole sono state bombardate, così come case e strade. Non abbiamo infrastrutture, né elettricità, né nulla di ciò che ci serve per vivere».
La situazione è ancora più drammatica con l’arrivo dell’inverno. «Sopravviviamo con tende e coperte, ma la gente soffre la fame», racconta Sami. La scarsità di cibo è uno dei temi centrali di questa guerra: «Non avevamo mai sentito questa fame così profondamente: molte notti ci siamo addormentati senza aver mangiato neanche un pasto. I prezzi dei beni essenziali sono altissimi e inaccessibili per la maggior parte di noi». La Striscia ha subito perdite devastanti, con 50.000 morti, molti dei quali sono ancora sotto le macerie o dispersi. Sami vive ora in una tenda a Khan Younis, nel sud della Striscia, in una zona dichiarata umanitaria, ma anche lì la violenza non si ferma: «Solo stanotte ci sono stati tre attacchi missilistici e oltre 21.000 persone hanno perso la vita».
Nonostante tutto, Sami e la sua comunità continuano a sperare. «Stiamo cercando di fare la nostra parte: abbiamo costruito una zona umanitaria e stiamo lavorando per fornire supporto e assistenza medica agli sfollati. Tante persone aspettano disperatamente che arrivino cibo e beni di prima necessità. I bambini desiderano tornare a mangiare cioccolatini e dolci, mentre gli adulti sognano di poter acquistare le cose di cui hanno bisogno, proprio come prima». La speranza di ricostruire le proprie vite è l’unica cosa che tiene in vita Sami: «Mio figlio mi dice che vuole tornare a scuola. Una figlia studia per diventare dentista, l’altra ingegnere. Aspettiamo, con il cuore pieno di speranza, che questo incubo finisca».
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