Esclusiva

Gennaio 15 2025.
 
Ultimo aggiornamento: Gennaio 16 2025
“Long Night”, l’Afghanistan raccontata da Lynzy Billing

La giornalista britannica di origini afghano-pakistane presenta per la prima volta al Palazzo delle Esposizioni di Roma il suo documentario Long Night

Gli occhi della guerra sono rosso sangue. Sono quelli di un bambino che, nonostante le mutilazioni causate da una mina inesplosa, sorride alla telecamera e dice di essere felice perché è vivo. Questo è lo sguardo catturato dalla giornalista investigativa Lynzy Billing nel suo documentario Long Night: un racconto delle conseguenze di decenni di conflitti in Afghanistan attraverso le testimonianze degli operatori umanitari negli ospedali di Emergency e dei loro pazienti. Il titolo rimanda alle numerose e lunghe notti che il personale sanitario deve affrontare per far fronte alle urgenze, alle mass casualties: un flusso continuo e spropositato di feriti che devono essere soccorsi, soprattutto a seguito di episodi violenti come attentati ed esplosioni.

“Questo film R1PUD1A la guerra” è la scritta che appare prima della proiezione. A spiegarne il significato è Giuliano Battiston, giornalista e ricercatore indipendente: «Il docufilm riflette anche sui venticinque anni di assistenza sanitaria della Ong, presente nel Paese dal 1999. Per l’occasione abbiamo lanciato la campagna di sensibilizzazione R1PUD1A. Il numero uno al posto della lettera i richiama l’articolo 11 della Costituzione italiana in cui la guerra viene ripudiata e condannata».

La narrazione di Long Night viene costruita attraverso le interviste di infermieri e medici. Uno di questi è Filippo Bongiovanni, giovane anestesista e rianimatore di Emergency, tornato lo scorso settembre in Italia dopo una missione di sei mesi a Kabul: «Provo grande ammirazione per i medici afghani, un singolo chirurgo racchiude in sé quattro o cinque figure professionali italiane. Le emergenze sono tante, anche perché i bisogni di salute della popolazione si sono ampliati. Il 70% delle persone non riporta più danni diretti della guerra, ma sono ferite figlie della violenza, a causa della massiccia diffusione di armi e di ordigni inesplosi, a cui seguono amputazioni e riabilitazioni. Una grande fetta di popolazione non può accedere alle cure di base e il sistema sanitario non riesce a rispondere ai vari bisogni».

Turni strazianti, postazioni esterne per il triage di massa e molti codici neri da registrare, dove la situazione più triste – ammette un chirurgo – «è quando un telefono squilla nelle tasche di un paziente già morto e bisogna rispondere alla famiglia che lui non ce l’ha fatta». Nelle corsie ospedaliere non è raro incrociare delle dottoresse: nonostante il ritorno dei talebani nel Paese e la contrazione dei diritti, continua a crescere la presenza femminile nei centri chirurgici di Emergency e soprattutto in quello per la maternità, in cui vengono garantire le cure ostetriche e pediatriche.

Vincitrice di tre Emmy Awards e da anni impegnata nel giornalismo d’inchiesta in zone di conflitto, Lynzy ha girato il suo reportage in due settimane lo scorso luglio tra le province di Kabul, Helmand e Panjshir, sperimentando un nuovo modo di lavorare: «Non ho preparato una lista di domande come sempre, le interviste sono nate da incontri casuali e coincidenze. Volevo che fossero loro a raccontare, perché molto spesso c’è un modo di ritrarre l’Afghanistan piuttosto restrittivo. Solo se si ha tempo di passare del tempo con le persone allora il ritratto non sarà riduttivo».

Ma è possibile restare emotivamente distaccati da tutto ciò che si documenta? «Penso che mi sarei dovuta sentire più “toccata” dalle cose, ma quando filmi o scatti fotografie non pensi davvero a quello che provi. Poi quando torni a casa ripensi a tutti coloro che hai incontrato e alle loro storie. Non mi capita di avere dei crolli, ma mi sfogo con il mio fidanzato. Anche lui è un giornalista e film maker, ci siamo incontrati proprio in Afghanistan, quindi ne discutiamo insieme perché condividiamo le stesse esperienze», rivela la fotogiornalista.  

Lei, che è appena tornata dalla Siria dove ha raccolto in nove giorni novemilacinquecento documenti sul sistema di oppressione e sulle condizioni nelle carceri durante il regime di Assad, ripartirà a breve: «Domani tornerò in Siria per fare di nuovo una lunga inchiesta, mentre il mese prossimo sarò in Afghanistan per continuare il lavoro sulle Unità Zero afghane supportate dalla CIA».