Esclusiva

Gennaio 24 2025
Pena di morte, il ritorno al passato di Trump

Il presidente appena rieletto ha ripristinato la pena capitale federale. Maurizio Bellacosa, avvocato e professore associato di diritto penale, ricostruisce il dibattito sollevato dalla misura

Sono passate poche ore dall’insediamento del quarantasettesimo presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, e l’indirizzo politico della sua nuova amministrazione è già chiaro. La scritta “America is back” apre il sito ufficiale della Casa Bianca, segnando il ritorno di una linea dura che si riflette nei primi decreti firmati dal tycoon. Tra questi, il ripristino della pena di morte federale. Un provvedimento che segna una rottura rispetto alla posizione sul tema del suo predecessore, Joe Biden.

Il nuovo ordine esecutivo impone al procuratore generale di richiedere con più frequenza la pena capitale «per tutti i crimini di una gravità tale da richiederne l’uso», «indipendentemente da altri fattori» quando il caso riguarda l’uccisione di un agente o reati capitali «commessi da uno straniero illegalmente presente nel Paese». Inoltre, ha richiesto di «intraprendere tutte le azioni necessarie e legali» per garantire che gli Stati abbiano una scorta sufficiente di farmaci per le iniezioni letali, rimuovendo così uno degli ostacoli pratici che negli ultimi anni avevano rallentato le esecuzioni o riportato in uso metodi come la fucilazione – come avvenuto in South Carolina dal 2022 –.

Il ritorno della pena di morte federale non è una novità assoluta per l’amministrazione Trump. Durante il suo primo mandato, tra il 2019 e il 2020, erano state eseguite tredici condanne federali, il numero più alto per un presidente nella storia moderna degli Stati Uniti. Il metodo utilizzato, che ora potrebbe essere reintrodotto, era una dose singola di Pentobarbital. Uno studio governativo sollevò dubbi sulla possibilità di provocare, tramite il farmaco, sofferenze e dolori non necessari per i condannati.
Questi fatti hanno riaperto un dibattito nazionale sulla legittimità della misura.

«La questione del ruolo della pena capitale nella società americana è molto delicata» riflette Maurizio Bellacosa, avvocato e professore associato di diritto penale dell’Università Luiss. «Il tema ha un forte radicamento storico, politico e sociale, è stato oggetto di contrastanti letture da parte della giurisprudenza, anche della Corte Suprema, e deve confrontarsi con il dato secondo cui un’ampia fetta della popolazione statunitense è ancora favorevole alla pena di morte» prosegue.

L’opinione pubblica è divisa tra chi la sostiene come provvedimento contro i crimini più efferati e chi ne denuncia i rischi, in particolare l’irreversibilità in caso di errori giudiziari. Per questo l’amministrazione Biden, nel 2021, fece un passo indietro e impose una moratoria sulle esecuzioni capitali. Trentasette condanne vennero convertite in ergastolo, lasciando solo tre imputati nel braccio della morte federale.

L’interrogativo principale è sulla reale capacità deterrente della pena di morte. «Nessuna misura punitiva, neanche la più severa, potrà mai, di per sé, essere in grado di azzerare il rischio di commissione di fatti di reato, tenuto conto dei numerosi fattori sociali, ambientali e personali che incidono sul loro verificarsi» precisa il professor Bellacosa. «Anche negli Stati Uniti uno studio condotto diversi anni fa dal National Research Council concluse che non fosse possibile, sulla base delle ricerche esistenti, affermare se la pena capitale diminuisca, aumenti o non abbia alcun effetto, in particolare, sui tassi di omicidio».

Nonostante dall’ultimo rapporto di Amnesty International sulla pena di morte emerga che il numero degli Stati che hanno eseguito condanne a morte ha raggiunto il minimo storico di sedici Paesi, l’executive order di Trump sembra remare contro questa tendenza positiva. «Si tratta di una visione assai distante da quella accolta dall’ordinamento italiano, che ripudia la pena di morte» conclude Bellacosa. «Più in generale, la nostra Costituzione assegna alla pena la funzione di offrire al condannato un percorso di rieducazione; e il right to hope è un principio cardine che – anche nell’impostazione della Corte europea dei diritti dell’uomo – vale a rendere pure le pene più severe, come l’ergastolo, legittime al metro dei diritti fondamentali».

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