La moda può raccontare storie, creare opportunità e diventare un ponte tra culture. È il caso di Coloriage, un laboratorio di sartoria sociale nato nel 2019 a Roma, nel cuore di Trastevere. «Volevamo dare una formazione di eccellenza gratuita a rifugiati e migranti con un background artigianale – racconta la fondatrice Valeria Kone – Chi arriva qui è spesso costretto a fare lavori dequalificati. Così invece si sentono valorizzati perché possono continuare il loro percorso».
Dietro ogni idea c’è una storia e quella di Valeria, italo-maliana, parte da un dottorato in filosofia a Parigi e una precedente esperienza nel mondo del fast fashion. «Durante i viaggi di lavoro ho visto l’impatto ambientale e sociale che la moda produce nei Paesi a basso reddito – racconta – In luoghi come il Bangladesh le tecniche di produzione, di tintura, devastano le terre, contadini e pescatori non possono più esercitare la loro professione e vanno a lavorare per l’industria moda che distrugge il loro territorio. Non potevo rimanere in quel mondo».

Nel giro di due anni, da scuola di moda autofinanziata attraverso il crowdfunding, Coloriage diventa un’impresa sociale, dove oggi lavorano otto ex studenti. Le richieste di tirocini che arrivano dai centri di accoglienza sono continue, circa quindici al mese: «Essendo un’azienda privata riusciamo a prendere solo quattro persone ogni sei mesi, però chi viene qui ha le basi per potersi poi inserire nel mondo del lavoro», dice con orgoglio Valeria.
Senegal, Gambia, Nigeria e adesso, complice lo scoppio della guerra, anche Ucraina. La scuola non ha confini: «In passato abbiamo avuto anche persone dall’Iran e dalla Siria – prosegue, mentre una cliente arriva in negozio – A breve faremo un colloquio con un ragazzo palestinese. Vogliamo creare una moda interculturale».
Ciò che rende unici i capi di Coloriage è proprio l’incontro di due mondi: «Abbiamo avviato un progetto di economia circolare, recuperando tessuti di dead stock da aziende italiane dell’alta moda che, invece di essere smaltiti, vengono donati o venduti a prezzi di stock – spiega – A questi abbiniamo stoffe africane pregiate, come quelle prodotte in Ghana, Costa d’Avorio e Mali, dove realizziamo tessuti biologici tinti con pigmenti naturali». Ogni capo è un pezzo unico, reversibile, con un’identità che valorizzi contemporaneamente le due culture.
L’insegnamento della sartoria segue gli standard del mercato europeo, con particolare attenzione alle finiture e all’uso dei cartamodelli, fondamentali per garantire precisione nei tagli. «È importante utilizzarli, mentre nei loro Paesi d’origine molti dei nostri studenti sono abituati a lavorare senza, tagliando il tessuto ad occhio – specifica la fondatrice – Allo stesso tempo questa loro caratteristica diventa un vantaggio quando realizziamo capi su misura, perché permette modifiche rapide e personalizzazioni immediate».
L’impegno di Coloriage non è passato inosservato. Il progetto ha ricevuto il premio “Welcome” dall’UNHCR, che valorizza le aziende capaci di favorire l’integrazione lavorativa dei rifugiati. Tra i capi più venduti ci sono i bomber e i kimono. «Chi entra nel nostro spazio capisce subito che non è un semplice negozio», spiega Valeria. Ogni capo porta con sé la storia di chi lo ha creato, con un cartellino che indica il nome del sarto e le ore di lavoro necessarie alla realizzazione.
Trastevere è una zona di Roma amatissima dagli stranieri, non è un caso se i turisti del nord Europa e degli Stati Uniti sono tra i principali clienti di Coloriage. Il futuro dell’impresa ora è l’espansione sul mercato internazionale, continuando a cucire insieme storie, tessuti e speranze.