Mario Vargas Llosa ha scritto romanzi su come il potere entra nelle persone, le attraversa, le spezza. Le sue storie non cercano empatia: mostrano caserme che addestrano alla crudeltà, governi che riscrivono la verità in forma di propaganda. Nei suoi romanzi non c’è un colpevole, c’è un sistema. Dentro quel sistema, ogni personaggio agisce, si illude, obbedisce, crolla. In La festa del caprone, chi serve Trujilo non è un mostro, ma un uomo spezzato da ciò in cui ha creduto troppo a lungo. Il lettore intanto segue più voci, più tempi, più prospettive. Nessuno gli dice cosa pensare. Vargas Llosa non usava la letteratura per spiegare il mondo: la usava per metterlo a nudo.
La violenza, nei suoi romanzi, non ha quasi mai un solo volto. È un fenomeno che si distribuisce, che si riproduce attraverso automatismi, obbedienze, regole interiorizzate. I suoi romanzi sono indagini sul modo in cui un sistema si installa nei comportamenti delle persone. «Molti protagonisti dei suoi romanzi sono uomini che sono in sistemi di potere, che cercano potere, vi si sottomettono, ma combattono anche contro l’oppressione», come ricorda il giornalista Alfredo Somoza. Non c’è solo la critica alla dittatura: in Lituma sule Ande la minaccia non arriva solo allo Stato, ma anche dai movimenti armati come Sendero Luminoso. È un elemento che, sottolinea Somoza, «è sempre rimasto fisso nella sua opera», anche quando la sua posizione politica è cambiata.
I meccanismi del potere nelle opere di Vargas Llosa non agiscono in modo lineare: sono un’architettura complessa, che opera su più livelli. Ed è proprio per restituire la complessità che la dimensione temporale diventa centrale, quasi viva. «Vargas Llosa inventa strutture in cui i personaggi parlano in tempi e spazi diversi, ma sulla stessa pagina. È come se il tempo venisse spazializzato: lo si può percorrere come uno spazio, andare avanti, indietro, cambiare direzione», racconta Bruno Arpaia, scrittore e traduttore. Questa concezione del tempo non è solo una scelta stilistica: è un linguaggio preciso che unisce gli scrittori del boom latinoamericano. Nei romanzi di Vargas Llosa convivono le grandi narrazioni degli scrittori russi e francesi dell’Ottocento, e la frammentazione barocca di opere come Pedro Pàramo di Rulfo.
A tutto questo si aggiunge l’eredità novecentesca: «La loro scrittura recepisce le innovazioni scientifiche e filosofiche del secolo, e questa influenza si sente sia nella struttura narrativa sia nella visione del mondo», ricorda Arpaia. Non si tratta di fare ordine nel caos, ma di mostrarne la struttura nascosta e dissezionarla con la precisione di un architetto e l’ambizione di chi attraverso la letteratura, ha voluto contenere l’intera complessità del reale in un romanzo totale.
Mario Vargas Llosa, nonostante sia stato spesso contestato per i cambi della sua traiettoria politica, è rimasto fedele alla sua ossessione narrativa: criticare i sistemi, i militari, le strutture del dominio. Costringe il lettore a guardare dove gli altri distolgono lo sguardo: nelle caserme, nei ministeri. È uno scrittore, come ricordava Cortázar, con la forza di «scorticare il mondo, scomporlo e ricomporlo in un’immagine coerente con la forza di inerzia tranquilla ma irresistibile di un grande mammifero».
Non spiegava il mondo: i suoi romanzi costringono a restarci dentro, senza scorciatoie. E anche se l’epoca del boom si chiude, i suoi libri restano: mappe del potere, strumenti necessari per continuare a navigare nel presente.