Esclusiva

Aprile 24 2025.
 
Ultimo aggiornamento: Aprile 26 2025
Da Salò al Partito comunista

Dalla giovinezza fascista alla militanza comunista, la parabola di Piero Vivarelli racconta la possibilità di cambiare e di resistere anche dentro di sé

Quando si racconta la Resistenza, spesso si cercano gli eroi puri, le scelte limpide, le linee nette. Ma la storia vera, quella che brucia sotto la pelle del Novecento, è fatta di zone d’ombra, di svolte improvvise, di dolori che diventano ideologia. Ed è lì, proprio in quella terra incerta tra la colpa e il cambiamento, che si muove la vicenda di Piero Vivarelli.

«Quando ero bambino, guardavo mio padre come si guarda un monumento antico, pieno di misteri, incrinature e grandezza», racconta suo figlio Oliviero. E quel monumento, prima di diventare regista, autore di canzoni leggendarie e figura iconica del costume italiano, fu un adolescente immerso nel caos dell’Italia che bruciava.

Aveva sedici anni, Piero, quando scelse di arruolarsi nella Xª MAS, la formazione militare repubblichina nota per la sua feroce fedeltà alla causa fascista. Non lo fece per ideologia, non per calcolo. «Aveva perso suo padre, un medico, ucciso dai partigiani comunisti. E quell’assenza bruciante lo spinse a scegliere da che parte stare. Non era ideologia, era dolore». Il dolore, nei ragazzi, è spesso più forte di ogni teoria. E così, in un’Italia spaccata, confusa, ferita, Piero cercò una risposta indossando una divisa.

«Me lo raccontava poco, quasi mai», dice Oliviero. «Ma a volte, nei silenzi lunghi, nei gesti ripetuti, nei sorrisi ironici che sapevano di malinconia, io lo vedevo quel ragazzo. Vedevo il sedicenne con gli stivali troppo grandi, lo sguardo fiero e confuso, il cuore in guerra più che il fucile».

Eppure, qualcosa accadde. Un cambiamento sottile, lento, ma radicale. L’adolescente ferito diventò un uomo in cerca. Cominciò a leggere, a viaggiare, a interrogarsi. «Quel ragazzo che aveva cercato vendetta, finì per cercare giustizia. Non più armata, ma umana, profonda, politica».

Da quella ferita iniziale, Piero Vivarelli riscrisse sé stesso. Divenne un artista, un autore, un regista. Scrisse testi per Celentano, Mina, Morandi. Fu parte del boom, del rock’n’roll, della rivoluzione culturale italiana. Ma la svolta più sorprendente fu ancora una volta politica: divenne l’unico italiano ad avere la tessera del Partito Comunista Cubano, firmata da Fidel Castro in persona. «Sì, proprio lui, l’ex ragazzo della Xª MAS, diventò comunista. Un paradosso? Forse. Ma mio padre era fatto così, viveva tutto con passione, anche le sue contraddizioni».

Contraddizioni, appunto, ma anche consapevolezze. Vivarelli non rinnegò ma il suo passato come si cancella un errore: lo portò con sé, lo attraversò, lo trasformò. «Non voglio giustificare né condannare, voglio solo ricordare», spiega Oliviero. Perché nel ricordare, c’è già una forma di resistenza.

La storia di Piero Vivarelli non è quella di un partigiano nel senso classico. È la storia di una resistenza interiore, quella che nasce quando si ha il coraggio di cambiare, di tradire le certezze giovanili per abbracciare una visione più ampia, più umana. Una resistenza che non ha portato un fucile tra le montagne, ma che ha attraversato le ideologie, le mode, la cultura, fino a trasformarsi in testimonianza.

«La vita di mio padre è stata un romanzo pieno di svolte e tutto è cominciato lì, in quell’Italia in fiamme, con un ragazzo che cercava vendetta, senso, forse solo un posto nel mondo. E se oggi posso raccontarlo, è perché quell’adolescente, ferito e coraggioso, ha poi scelto di vivere tante altre vite. Di cambiare. Di scrivere. Di amare. Anche di pentirsi. Ma prima di tutto, è stato solo un figlio che aveva perso il padre».

Ma chi è stato davvero Piero Vivarelli? Un’anima in fuga, certo, ma anche un protagonista, spesso silenzioso, del costume italiano. Dietro molte delle canzoni che oggi fanno parte della nostra memoria collettiva – da 24.000 baci a Il tuo bacio è come un rock – c’era la sua penna. Scriveva con ironia, con ritmo, ma anche con una consapevolezza tutta sua del linguaggio popolare. Era capace di attraversare mondi diversi: la leggerezza dell’intrattenimento, la profondità dell’esperienza politica, la passione viscerale per la vita.

Al cinema, firmò film simbolo dell’Italia che cambiava: Rita la zanzara, Il dio serpente, Sappho – Venere di Lesbo. Titoli che oggi possono sembrare naïf o audaci, ma che raccontavano, con le armi del melodramma e dell’erotismo, le tensioni di un Paese che stava cercando una nuova identità. Vivarelli non aveva paura di mescolare sacro e profano, rivoluzione e show business, carne e spirito. Per questo fu amato, criticato, imitato.

Fu vicino agli ambienti beat, frequentò Pasolini e Tondelli, conobbe i poeti e i rocker, i rivoluzionari e i divi. Eppure, dietro la mondanità, restava quell’uomo segnato da una ferita originaria. Forse proprio quella ferita lo spinse ad accogliere tutto con la fame: le idee, gli amori, le battaglie, i compromessi.

La sua tessera del Partito Comunista Cubano non fu una poesia esotica. Era il segno di un passaggio vero, di un desiderio di riscatto che affondava nella memoria e nello sguardo lungo di chi ha conosciuto il dolore e ha scelto di non fuggirlo. E anche se oggi può sembrare incredibile che un ex ragazzo della Xª MAS sia diventato compagno di Castro, è proprio questo il senso più profondo della sua vita, la possibilità di cambiare.

Vivarelli è stato un uomo del Novecento fino in fondo. Contraddittorio, vitale, irregolare. La sua resistenza non è stata una sola, è stata quella di chi non smette di interrogarsi, di chi attraversa le stagioni della vita senza paura di ricredersi. E in un tempo in cui le identità sembrano scolpite nella pietra, la sua parabola ci ricorda che siamo tutti in cammino. Che si può sbagliare, ma anche risorgere. Che si può servire un’idea sbagliata e poi cercarne una giusta. Che si possono scrivere canzoni leggere e custodire pensieri pesanti. Oggi, a ottant’anni dalla Liberazione, raccontare la sua storia è un atto di memoria, ma anche di futuro. Perché la libertà, come la resistenza, non è un gesto unico. È un movimento continuo. E Piero Vivarelli, con tutte le sue vite, ne è stato un testimone autentico.

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