Esclusiva

Aprile 24 2025
La libertà dopo la Resistenza

Sono passati ottant’anni dal 25 aprile 1945, giorno in cui il Clnai proclamò a Milano l’insurrezione generale. Mussolini sarà giustiziato tre giorni dopo

«Se aveste vinto voi, io sarei in prigione. Siccome abbiamo vinto noi, tu sei senatore». Queste parole dello storico esponente della sinistra Vittorio Foa sono state rivolte a qualcuno che in prigione c’è stato davvero, ma per aver combattuto contro i partigiani sotto la bandiera della Repubblica sociale italiana. Durante una riunione a palazzo Madama, l’ex partigiano antifascista, che militò nelle file del Partito d’Azione a Torino e a Milano, e deputato dell’Assemblea costituente ha ricordato al suo omologo, che aveva aderito al Partito fascista ed era stato tra i fondatori del Movimento sociale italiano, quale fosse il significato più vero della Resistenza: la libertà.

Sono passati ottant’anni dal 25 aprile 1945, giorno in cui il Comitato di liberazione nazionale dell’alta Italia (Clnai), presieduto da Alfredo Pizzoni, Luigi Longo, Emilio Sereni, Sandro Pertini (che diventerà uno dei più popolari Presidenti della Repubblica) e Leo Valiani, proclamò a Milano l’insurrezione generale in tutti i territori occupati dai nazifascisti. Marcello Flores, professore di Storia contemporanea all’Università degli Studi di Siena e direttore del Master europeo in Human rights and genocide studies afferma che quel giorno di otto decenni fa «ha segnato la fine definitiva non soltanto della guerra, ma di tutta l’esperienza che il fascismo ha avuto nella storia italiana: la Liberazione poneva immediatamente le basi per quello che sarebbe stato di lì a poco la costruzione dello Stato democratico, e cioè la Costituzione».

Gli anniversari richiamano sempre un’attenzione mediatica particolare, ma la cifra simbolica degli ottant’anni della Resistenza è maggiore soprattutto se «oggi ci troviamo a celebrare la Liberazione con un governo alla cui guida ci sono gli eredi – che hanno fatto un loro percorso che non va disconosciuto, si ricordi a proposito il presidente di Alleanza Nazionale Gianfranco Fini che, in visita a Gerusalemme nel 2003, definì il fascismo “male assoluto” – del neofascismo che si richiamava alla Repubblica sociale».

La Carta fondamentale è il lascito più importante che ci ha tramandato la stagione della Resistenza e ha rappresentato il sogno di una pacificazione nazionale che, una volta per tutte, mettesse la parola fine ai vent’anni di regime mussoliniano. Un esempio su tutti: il primo presidente della Corte costituzionale della neonata Repubblica è stato Gaetano Azzariti che, durante il ventennio, era stato presidente del Tribunale della razza. È per questa esigenza che il segretario del Partito comunista italiano Palmiro Togliatti, in qualità di ministro di Grazia e Giustizia, ha emanato il 22 giugno 1946 un provvedimento di amnistia nei confronti di coloro che si erano macchiati di reati politici e anche di quelli che avevano collaborato con il nemico nazista e si erano resi a loro volta responsabili di omicidi e stragi. «Erano in molti a essere consapevoli – commenta Flores – che cancellare il fascismo nella testa dei suoi sostenitori sarebbe stato molto difficile, ed è per questo che è nato il bisogno di una pacificazione civile. Il problema è che non c’è stato un riconoscimento degli aspetti storici del passato».

Il professore si riferisce al rigurgito di violenza neofascista, che ha attraversato gli anni Sessanta e Settanta della storia repubblicana, messa in atto dalle organizzazioni terroristiche di estrema destra, come i Nuclei armati rivoluzionari (Nar), Ordine nuovo e Avanguardia nazionale. Il terrorismo nero si è reso responsabile della strage di Piazza Fontana a Milano (1969) che ha causato diciassette morti e ottantotto feriti, della strage di piazza della Loggia a Brescia (1974) che ha ucciso otto persone e ne ha ferite centotré, dell’esplosione di una bomba sul treno Italicus (1974) che ha provocato dodici morti e quarantotto feriti e della strage alla stazione di Bologna (1980), ottantacinque morti e duecento feriti. In quest’ultimo caso, la verità giudiziaria ha ricostruito anche un collegamento nell’attentato con la loggia massonica Propaganda 2 (P2), comandata allora da Licio Gelli. Inoltre, nel 1970 c’è stato un tentativo di colpo di Stato messo in atto da Julio Valerio Borghese in collaborazione con alcuni reparti dell’esercito. «Questo è il clima – aggiunge Flores – in cui si è formata gran parte della classe dirigente che guida oggi Fratelli d’Italia, e quindi nei confronti di quel periodo e di quei comportamenti ci vorrebbe una presa di distanza molto più netta e molto più precisa».

Quando si guarda al passato è necessario distinguere tra storia e memoria: la prima è generale, capace di frapporre una barriera emotiva che permetta un’analisi oggettiva degli avvenimenti, la seconda guarda da un punto di vista particolare ed è quindi soggettiva. Non si può pensare che le grandi stragi dei soldati italiani a Marzabotto e a Sant’Anna di Stazzema o la deportazione del 16 ottobre 1943 degli ebrei dal ghetto di Roma siano state compiute solo dai tedeschi «senza considerare il ruolo attivo, partecipe, collaborativo e concreto che hanno avuto i fascisti. Dentro di sé ognuno pensa quello che vuole, e Ignazio La Russa può pure continuare a tenere in casa i busti di Mussolini, ma un presidente del Senato non dovrebbe affermare pubblicamente che a via Rasella i partigiani hanno ucciso una banda di musicisti».

Il professore allude alla frase pronunciata da La Russa che ha screditato un momento della Resistenza: i partigiani del Gruppo di Azione Patriottica (Gap), un’unità del Partito comunista, tra i quali figurava anche Carlo Salinari che diventerà uno dei critici letterari più importanti del Novecento, uccisero alcuni soldati di un reparto del battaglione tedesco “Bozen”. Come rappresaglia per l’attentato, i nazifascisti hanno trucidato nelle Fosse Ardeatine più di trecento civili e prigionieri politici e «è inaccettabile dire, come ha fatto la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, che siano stati solo i tedeschi a compiere quella terribile strage».

«L’eredità più importante che ci ha lasciato la Resistenza è la libertà», ma è inutile custodirla adorandone le ceneri, l’unico modo per preservare il significato e il valore della Resistenza e di ciò che ha rappresentato per l’Italia è quello di mantenere vivo il fuoco e fare in modo che non si spenga mai.