«Il corpo di mio padre fu riconosciuto perché la giacca rivoltata aveva un rammendo interno che solo mia madre poteva aver fatto». È con questa immagine che Claudio Fano, il figlio di una delle 335 vittime delle Fosse Ardeatine, rievoca l’ultima traccia di suo padre. Giorgio Fano fu una delle vittime della rappresaglia nazista ordinata da Herbert Kappler in risposta all’attentato partigiano di via Rasella, in cui morirono 33 soldati tedeschi. La rappresaglia fu immediata: dieci italiani per ogni tedesco, scelti tra antifascisti, partigiani, detenuti politici ed ebrei.
Il 24 marzo 1944 vennero condotti alle cave di pozzolana sulla via Ardeatina, bendati, fucilati a gruppi e sepolti sotto tonnellate di esplosivo. Il nome Claudio Fano non compariva sulle prime liste: «La mia famiglia è stata nell’incertezza se mio padre fosse finito nelle Fosse Ardeatine o meno» spiega l’avvocato Fano.

La storia inizia però nel 1938, con le leggi razziali fasciste: «Bandirono gli ebrei da ogni attività pubblica e privata. Mio padre era commercialista, fu radiato dall’albo». Durante la guerra, Giorgio Fano aiutò altri ebrei a espatriare in Svizzera, procurandogli valuta straniera. Arrestato, fu incarcerato a Regina Coeli e liberato solo nel luglio del 1943, dopo la caduta del fascismo. Il 10 settembre, Roma fu presa dai tedeschi e, poche settimane dopo, Kappler lanciò un ultimatum alla comunità ebraica: «l consegna di 50 chili d’oro, sotto la minaccia di deportare allora in un “campo di lavoro” 300 capi famiglia».
Il nonno di Claudio Fano, assessore alle finanze della comunità, e Giorgio Fano furono tra i coordinatori della raccolta. «Ce l’avevano fatta, raccogliendone cinque in più. Ma l’ufficiale nazista disse che erano 45. Pretese altri cinque, e glieli dettero».
Intanto, la famiglia viveva in clandestinità. Si crearono una nuova identità: non si sarebbero più chiamati Fano ma Giorgie avrebbero finto di essere sfollati da Gioia del Colle. La sorella minore, di nome Ester – un nome troppo facilmente riconducibile alla religione ebraica – fu chiamata Giovanna. Una sera, mentre festeggiavano il compleanno della sorella di Claudio Fano, un vicino bussò e li avvertì: «Lo so che lei è ebreo, ma non deve avere paura di me, bensì dell’altro vicino, che è andato a denunciarvi». Si nascosero dividendosi: Claudio e la madre da un pediatra, la sorella minore da un’amica insegnante delle elementari. Il padre, ricercato anche per la leva obbligatoria, cambiava alloggio ogni sera.
A fine dicembre, la polizia fascista organizzò un censimento per stanare partigiani, alleati ed ebrei nascosti. Per precauzione, tornarono per due giorni nella casa di famiglia, già occupata da sfollati, «ad aspettare i fascisti o i nazisti, che non sono arrivati».
Il 16 marzo, pochi giorni prima dell’eccidio, Giorgio Fano fu arrestato: «Io e mia sorella siamo stati passeggiata con nostro padre, che ci riaccompagnò al convento» l’ultimo ricordo del padre.
Arrivò una denuncia e la polizia fascista lo portò al Regina Cieli, da cui ci fece avere dei biglietti».
A ottant’anni dall’eccidio, la storia di Giorgio Fano ricorda che la resistenza non fu solo armata. Fu anche clandestinità, solidarietà, legami e vite spezzate.
Leggi anche: Quelle ragazze in bicicletta