Esclusiva

Aprile 29 2025
L’eco Usa nel silenzio dei ghiacciai

Trump mira alle terre rare nell’Artico, ma l’isola è sotto la sovranità della Danimarca e ambisce all’indipendenza

Tra le lande bianche alla periferia di Nuuk neanche il silenzio sembra più durare per sempre. Come il ghiaccio, da quelle parti chiamato “eterno” o permafrost, che al disgelo ha portato gli insediamenti indigeni a riversarsi attorno alla capitale groenlandese. «Prima vivevamo negli igloo, cacciavamo, pescavamo. Io però sono nato quando molti di noi si erano già trasferiti nelle città». Tanti inuit come Milo Biilmann, primo calciatore professionista tra i suoi, sono stati costretti ad abbandonare intorno agli anni ’70 le abitudini da viandanti dei fiordi. Colpa dello scioglimento dei ghiacciai, lo stesso che ha man mano rivelato al mondo le terre rare. Da lì, il frastuono al di là del mare: «Abbiamo bisogno della Groenlandia per la sicurezza internazionale, dobbiamo prenderla anche con la forza, se necessario», le minacce di Donald Trump fanno da mesi eco alle mire espansionistiche mai nascoste dagli Stati Uniti.

Rimbombano gli avvertimenti a Copenaghen, rimasta sovrana pur concedendo ampia autonomia alla Groenlandia. E all’Europa intera, che teme il ripetersi di una colonizzazione moderna. «C’è chi aspetta di svegliarsi una mattina e trovare navi militari statunitensi al largo di Nuuk», spiega Penny, ricercatrice inglese residente nell’Artico. «È già in corso una guerra invisibile, fatta di fake news sui social network, divisioni interne e propaganda che sfrutta persino le ferite storiche tra danesi e inuit». È la paura di nuovi coloni ad aumentare la sfiducia di chi abita da secoli quell’isola. Vecchie brine risalgono al ’53, quando gli inuit furono cacciati dall’insediamento di Thule per far spazio a una base militare Nato targata Usa. Lì e in altri presidi americani il vicepresidente J.D. Vance ha fatto visita di recente, accompagnato dalla moglie Usha, tra sorrisi e cappellini “Make Greenland Great Again”. «Se gli Stati Uniti non si interesseranno alla Groenlandia, allora lo faranno Cina e Russia», il monito del numero due di Trump.

Proprio in risposta alle pressioni internazionali e interne, lo scorso marzo Jens-Frederik Nielsen, leader dei democratici, è diventato il nuovo primo ministro e ha formato una coalizione di unità nazionale insieme ad altri tre partiti. L’accordo di governo gravita attorno allo sviluppo, ma invita alla prudenza: «Arriverà, ma non ora. Prima dobbiamo emanciparci sul piano economico», ha avvertito Nielsen. «La gente qui è divisa», ammette Patrick O’Fredericksen, capitano della nazionale di calcio e operatore sociale in un orfanotrofio di Nuuk. «C’è chi preferisce restare con la Danimarca, chi guarda con curiosità agli Usa e pochi sono realmente convinti della libertà totale. Da soli non riusciremmo a sostenerci». Metà del bilancio annuale della Groenlandia arriva da Copenaghen: 600 milioni di euro, l’incognita è trovare nuove soluzioni per sostituirli.

E mentre la politica internazionale (Trump su tutti) inizia a galleggiare attorno alla Groenlandia, tra i locali restano profonde cicatrici sociali. Il 22% degli adulti soffre di alcolismo per far fronte all’isolamento, alle notti polari che si alternano sei mesi l’anno con il sole di mezzanotte. Tra i giovani, il suicidio resta la prima causa di morte. «Mio fratello non ha retto, si è tolto la vita lo scorso novembre», è la testimonianza di Milo, che saluta dalle Isole Faroe abbattuto ma ancora non rassegnato. «Sono stato costretto a trasferirmi qui per fare del calcio un lavoro. È sempre un problema di fondi, in tutti i campi, per qualunque mestiere. Ma sono fiducioso: è solo questione di pazienza». La stessa che da quelle parti li fa resistere al frastuono.