Una scatenata dozzina, quella del Premio Strega 2025 per la prosa. La selezione ha sorpreso i critici e i nomi esclusi sono forse più altisonanti di quelli entrati. Un esordio particolare è quello di Elvio Carrieri con Poveri a noi, edito da Ventanas e proposto dal giornalista Valerio Berruti. Classe 2004, con i suoi vent’anni (ventuno a luglio) è il più giovane finalista della storia del premio. Quello di Carrieri è il racconto di un’amicizia, quella fra Libero e Plinio, che sopravvive nonostante e grazie al rimorso, e di un amore che si mette in mezzo. Parla anche del suo territorio: di Bari e dei suoi problemi, della Valle d’Itria e della costa. Lo fa con una lingua vera, un barese italianizzato o forse il contrario.
Sei il più giovane finalista al Premio Strega di sempre. Ti senti un enfant prodige, un’eccezione, o il primo di una generazione che sta arrivando?
Non mi sento affatto un enfant prodige. Ti vorrei rispondere la seconda, ma purtroppo mi tocca risponderti che vengo trattato più come un’eccezione. Se parliamo di autori e autrici di romanzi che hanno almeno una pubblicazione, me ne vengono in mente un paio molto giovani anche se più grandi di me. Conosco, invece, tanti poeti. Non so se loro vorrebbero essere detti scrittori, perché li vedo molto più attenti al tema della performatività. Sono quindi più orientati al teatro e al palcoscenico di oggi, che sono i social, e lo dico senza alcun tipo di giudizio negativo. Per la prosa ci sarà da aspettare ancora un po’.
E tu, invece, che rapporto hai con i social?
Non molto buono. Perché vuoi o non vuoi, se sei indipendente devi starci. Ho comunque scoperto tante cose attraverso i social. Ad esempio tantissima musica. Però si rimane un po’ schiavi della performance e qualunque cosa fai sembra che, se non la pubblichi, non sia mai successa. Ho letto un articolo satirico di recente, “Il lancio promozionale dello scrittore social” di Luca Ricci, su Snaporaz. Mi ci sono rivisto molto, tristemente…
Studi anche lettere. Come stai vivendo questi anni universitari?
Come i più belli della mia vita. Ho anche raggiunto una forma di pseudostabilità. Soprattutto essendo rimasto a Bari per studiare. Ringrazio ogni giorno di non aver scelto di fare il fuorisede da qualche parte. Ora, chiaramente, ogni tipo di stabilità se n’è andata a quel paese, specialmente per fattori contingenti: sto facendo traslochi su traslochi, giro ramingo per case varie.
Scrivi, studi, ma sei anche un musicista. Suoni con una band, i Winstoned, che fa un mix fra rock e funk. Poveri a noi che genere è?
Direi fusion, fra rock e jazz. Perché è la musica di chi si crede molto intelligente, e Poveri a noi è un libro che si crede molto intelligente. Forse lo è meno di quanto si creda. E poi è un mix di varie cose ed è un romanzo costituzionalmente datato.
Gianrico Carofiglio, Nicola Lagioia, Mario Desiati – che è di Martina Franca ma ci ha vissuto. Bari è una città letteraria?
Forse più pubblicitaria. Però direi di sì. Anche se, secondo me, la vera narrazione di Bari inizia nel 1999 con LaCapaGira, il film dei fratelli Piva. Lagioia e Desiati hanno fatto e stanno facendo tanto, ma ci tengo a ricordare anche Marcello Introna, autore intelligentissimo, che ha da poco pubblicato Oro Forca Fiamme (Mondadori, 2024), un romanzo ambientato nella Bari del Seicento. Anche lui è parte della, non rinascita, ma vera e propria nascita letteraria di questa città.
Io penso di essermi inserito almeno un po’ in questa “scuola”. Per esempio, credo di essere stato il primo ad indagare letterariamente la questione dell’abbattimento del centro murattiano. È una storia tristissima che merita di essere raccontata. Penso di aver pagato il mio tributo alla città.
Quindi la tua è una città molto diversa da quella che vediamo sempre più spesso in film e fiction.
Sì, la Bari di Poveri a noi è antipubblicitaria. Penso che un turista, se leggesse una descrizione tratta dal libro, cambierebbe destinazione. Quindi non mi sorprende il silenzio delle istituzioni comunali in questi giorni. Le politiche culturali baresi sembrano indifferenti rispetto ad assessorati di altri luoghi, che invece mi cercano giorno e notte. Sarà che non sono stato molto clemente né con la politica né con la storia di questa città. O sarà che è ben chiaro a chiunque (e per fortuna) che mi occupo di scrittura e non di politica culturale.
Insomma, non è la Bari di Lolita Lobosco.
Sono molto grato a Lolita Lobosco e alla sua autrice Gabriella Genisi, che è una cara amica. Perché non è facile dare un volto cinematografico ad un posto che vent’anni fa era la roccaforte della malavita. Sono in debito verso chi, prima di me, si è occupato di rendere la città appetibile. Il mio lavoro è complementare: vuole offrire diverse possibilità.
Però la tua è anche una città senza mare. Scrivi “a Bari il mare è solo una trovata per metterci la ruota panoramica”.
Il mio rapporto con il mare barese è quasi nullo. Non credo di averci mai fatto il bagno. Anche perché fino a pochi anni fa a Pane e pomodoro (la spiaggia dei baresi per antonomasia, ndr) c’era l’alga tossica. Ora, invece, fino a Torre Quetta, ci sono orde di turisti che sembra la California. Loro si stanno godendo il mare di Bari molto più di quanto abbia fatto io per vent’anni. Ma meglio così.
Tornando a Poveri a noi. Come altri nuovi classici della letteratura italiana, parla di amicizia. Che amicizia è quella fra il protagonista Libero e Plinio?
La più vera di ogni amicizia, cioè quella corrotta. È molto poco pura, con dei giganteschi irrisolti risalenti quasi più all’inconscio, per quanto riguarda Libero. Però, proprio per questo, secondo me è un’amicizia viscerale. Al pari di una grande storia d’amore.
È, come si usa molto oggi, tossica?
Pure io me ne sono uscito con quest’aggettivo ogni tanto. Ma chiaramente no. Verrebbe da definirla così, ma secondo me è molto più.
Trimoni (buono a nulla) e cozzali (tamarri) è una contrapposizione antropologica?
Decisamente sì. Perché uno è prima di tutto detto, nominato dall’altro e viceversa, come un’attestazione di reciproca esistenza. Ed è anche un rapporto quasi inscindibile nel libro. I miei personaggi simpatizzano con i trimoni, ma, come quasi sempre nella vita, ad averla vinta sono i cozzali.
Libero è un insegnante in carcere. Tu ci pensi mai alla possibilità dell’insegnamento?
Certo, ma non vorrei che in alcune mie precedenti dichiarazioni sia passata una romanticizzazione di questo mestiere, che considero un’arte difficile. In quanto tale, la maggior parte delle persone credo la farà di merda. Mi auguro di avere lo stile giusto per insegnare, possibilmente in università. E la disciplina, pure quella.
Scrivi anche poesie. Sei più romanziere o poeta?
Innanzitutto, mi fa ridere che qualcuno possa definirsi poeta. Non ho mai detto che volevo fare il poeta, ma, al massimo, che volevo fare poesia, che è una cosa molto diversa. Intendo che il mio rapporto con la letteratura nasce con i versi, non nasce con la prosa. Ma ho sempre continuato a scrivere poesia. Mentre con la prosa ho avuto giganteschi periodi di iato, tra cui quello che sto vivendo in questo momento.
E adesso c’è lo Strega per la poesia…
Sì, ma lì “tifo” per Alfonso Guida (in gara con Diario di un autodidatta, Guanda, ndr) , che è uno dei miei poeti di riferimento nella contemporaneità e spero possa andare oltre la dozzina.
E tu ce l’hai questo desiderio?
Da adesso può succedere di tutto. Già questa è una dozzina che nessuno aveva pronosticato e questo risultato è folle, in senso positivo. Entrare in cinquina mi farebbe molto piacere, ma sto bene anche così.
Che progetti hai per quando questo tour de force sarà finito?
Mi rileggo i Promessi Sposi dall’inizio alla fine. E poi voglio tornare a suonare. In questi mesi quasi non ho preso la chitarra in mano e mi manca molto. Ho anche saltato troppi concerti con i miei Winstoned. Ah, magari provo anche a preparare qualche esame.
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