Esclusiva

Maggio 7 2025
Ekaterina Barabash, giornalista fuggita dalla Russia: «Lì il giornalismo non esiste più»

Ekaterina Barabash, giornalista russa agli arresti domiciliari, è fuggita dalla Russia e denuncia la fine del giornalismo indipendente nel suo paese

«Sono fuggita perché non avevo altra scelta. Il giornalismo non esiste più in Russia». Con queste parole, pronunciate durante la conferenza stampa organizzata da Reporter Senza Frontiere a Parigi (RSF) il 5 maggio, Ekaterina Barabash è riapparsa in pubblico dopo settimane di silenzio. La giornalista e critica cinematografica di 63 anni è riuscita a lasciare clandestinamente la Russia e a raggiungere la Francia con l’aiuto di RSF. Era finita nella lista dei ricercati il 21 aprile, quando aveva rimosso il braccialetto elettronico imposto dagli arresti domiciliari ed era riuscita a fuggire. Le autorità russe l’avevano accusata di aver diffuso “fake news” per alcune sue pubblicazioni sui social riguardo alla guerra in Ucraina. Rischiava fino a dieci anni di carcere.

Il viaggio verso la libertà è stato lungo più di 2800 chilometri e pieno di pericoli. In un’intervista a France 24, Barabash ha raccontato i primi momenti della fuga: «C’è stata una perquisizione in casa mia, leggera, solo nella mia stanza. Hanno aperto delle scatole, preso il mio cellulare e il computer. Poi mi hanno portata in commissariato e mi hanno detto che ero agli arresti domiciliari». Dopo aver salutato la madre e la persona che la assiste, è salita su un taxi ordinato da lontano, ha cambiato più volte mezzo di trasporto e ha attraversato boschi e strade secondarie per evitare i controlli. «È stato molto pericoloso, terrificante. Le telecamere sono ovunque. A volte ho dovuto camminare per chilometri nella foresta con lo zaino. E in certe notti ho dormito all’aperto, sotto il cielo».

Barabash è nata in ucraina nella città di Kharkiv ma è cresciuta a Mosca, dove ha iniziato a lavorare come giornalista culturale. Ha collaborato con Republic, una delle ultime testate indipendenti in Russia, e con il servizio in lingua russa di Radio France Internationale. I suoi legami con l’Ucraina sono rimasti: suo figlio e suo nipote vivono a Kiev, ma non li vede da oltre tre anni.

Nel corso degli anni ha continuato a pubblicare commenti critici sull’invasione iniziata a febbraio 2022 da Putin. In un post su Facebook scriveva: «Perché scrivo sempre di questo? Probabilmente per evitare che questo crimine a lungo termine diventi una routine, almeno nel mio cervello. Per evitare che vada alla periferia della mia mente, mia e dei pochi che mi leggono». Il regime ha ritenuto quei post un attacco inaccettabile, tanto da inserirla nella lista degli “agenti stranieri”.

Alla domanda sul perché avesse deciso di rischiare tutto per scappare, ha risposto, sempre a France 24: «C’è una ragione precisa per cui sono scappata: non volevo finire in prigione. Una prigione russa è peggio della morte. Per questo avevo persino cominciato a cercare del veleno: non potevo sopportare l’idea di passare cinque o sette anni in carcere». La sua riflessione sulla professione è drastica: «Sì, formalmente è ancora possibile fare il giornalista in Russia. Ci sono giornali, riviste politiche, sociali, culturali, perfino glamour. Ma la censura ha distrutto il giornalismo. Quella statale rende impossibile un’informazione onesta. Se vuoi essere un giornalista, devi andare in esilio. Se resti in Russia e ti definisci giornalista, in realtà non lo sei. È molto semplice».

Le parole e l’esperienza di Ekaterina Barabash descrivono un sistema ormai chiuso e trovano riscontro nei dati. Oggi la Russia si trova al 162° posto su 180 nell’Indice mondiale della libertà di stampa di RSF. Quasi tutti i media indipendenti sono stati banditi o dichiarati “agenti stranieri”. I giornalisti che restano devono attenersi alle direttive del Cremlino e praticare una rigida autocensura. Chi disobbedisce rischia pene fino a 15 anni di carcere. Attualmente, secondo i numeri dell’organizzazione, 39 tra giornalisti e operatori dei media sono detenuti per reati legati alla diffusione di informazioni considerate “false”, “estremiste” o “terroristiche”.

Leggi anche: Russia, Corea del Nord e terrorismo