Vale ancora la pena intraprendere il percorso universitario? I dati del Rapporto AlmaLaurea 2025, sulla condizione occupazionale dei laureati, raccontano una realtà complessa, fatta di segnali positivi ma anche di contraddizioni difficili da superare.
Chi si laurea oggi ha maggiori possibilità di trovare lavoro rispetto al passato: a un anno dalla laurea il tasso di occupazione è del 78,6% sia per i triennali sia per i magistrali, con un aumento rispetto al 2024. A tre anni si tocca il 90% tra i triennali e quasi il 89% tra i magistrali, mentre a cinque anni si sfiora il 93%.

L’elemento cruciale che modifica con più impatto i numeri è il tipo di laurea, perché non tutte si equivalgono. Ingegneria, informatica, medicina, economia e discipline STEM (scienze, tecnologia, ingegneria e matematica) offrono sbocchi molto più favorevoli rispetto a giurisprudenza, psicologia, lettere, arte o design, dove la probabilità di trovare lavoro è tanto più bassa.
Il mercato seleziona e premia chi ha competenze tecniche, digitali, scientifiche.

I laureati in informatica e ingegneria sono anche i più propensi a partire, circa il 10% di loro lavora all’estero (il doppio rispetto al livello generale), dove le retribuzioni possono essere anche del 60% più alte. Diversa la situazione in Italia dove solo il 39,5% dei triennali e il 29,8% dei magistrali ha un contratto a tempo indeterminato. «Continuo a pensare che l’estero potrebbe darmi molte più opportunità economiche – dice Marco Aspromonte, ingegnere con specialistica in Computer Science – dove avrei una RAL di 60mila euro, il doppio dell’Italia». Qualità della vita e famiglia lo hanno fatto rimanere per adesso qui, però «non lo escludo per il futuro – ammette – anche perchè ho lavorato a distanza con una start up californiana e al giorno guadagnavo 160 dollari, cifra qui impensabile».
Il problema però non è solo economico, il Rapporto mette in evidenza anche le disuguaglianze territoriali tra nord e sud e di genere. Chi studia o risiede nel settentrione ha fino al 47% di probabilità in più di trovare lavoro rispetto a chi vive nel mezzogiorno, mentre le donne, a parità di percorso, restano penalizzate rispetto agli uomini, che invece hanno il 13% in più di possibilità di essere occupati.
I numeri però in generale sono incoraggianti: i laureati tra i 25 e i 34 anni lavorano nel 74,5% dei casi, contro il 43,4% dei coetanei con solo un diploma. L’università sembra funzionare, soprattutto per le studentesse e gli studenti che sono riusciti a lavorare durante il percorso accademico. Questi ultimi conquistano il 35% in più di probabilità di essere occupati, le esperienze all’estero aumentano le possibilità dell’8%, mentre gli esperti digitali hanno addirittura il 20% di opportunità in più. Il vero macigno da superare rimane la penultima posizione dell’Italia in Europa per quota di laureati. Nella fascia 25-34 anni, sotto del 30%, lontanissima alla media UE (41%) e dagli obiettivi del 2030. Il Rapporto mostra che il titolo di studio è ancora il miglior alleato per chi vuole trovare un posto, guadagnare di più, accedere a contratti più stabili. Quindi sì il “pezzo di carta” conviene ancora, serve però ripensarlo e renderlo più aderente a un mondo del lavoro che cambia. Più vicino alle esigenze dei recruiter di aziende, società e realtà di impiego pubblico e privato, il rischio altrimenti è far convincere i giovani che investire nello studio non sia più un’alternativa valida.