«Ma un conto è sognare il passato, un conto andarselo a prendere». Questa frase, pronunciata a mezza voce da Nadia Terranova mentre stringe la cartella clinica della bisnonna Venera, è la chiave d’accesso a Quello che so di te (Guanda, 2025), il suo ultimo romanzo: un viaggio nella memoria, nella carne e nella psiche, che scava nei silenzi di una genealogia femminile dove ciò che non si è detto pesa quanto ciò che è accaduto.
È il 1928. Venera cade dagli spalti di un circo, perde la bambina che porta in grembo, e varca la soglia della Villa della Salute Mandalari, manicomio femminile di Messina. È da questo crinale tra cronaca e mistero che inizia un’opera ibrida, personale e collettiva, in cui Terranova esplora le crepe della sua storia familiare con una scrittura insieme limpida e febbrile. Non c’è alcun intento edificante né la volontà di chiudere il cerchio, ma piuttosto il bisogno di abitare lo spazio tra i documenti ufficiali, le diagnosi scritte, e una mitologia fatta di voci sussurrate in cucina.
La narrazione si apre con un sogno. Nadia vede Venera, pallida e composta, entrare nella Mandalari come se sapesse esattamente cosa l’aspetta. È un sogno che diventa visione, inizio di un’indagine che si dipana attraverso archivi, testimonianze, lettere e soprattutto attraverso il corpo e la mente dell’autrice stessa. Perché quella che racconta non è solo la storia della bisnonna, ma anche la sua, quella di una donna che vuole ricostruire il passato della sua famiglia per poi guardare al futuro, grazie alla figlia nata da poco.
Mentre scrive i ricordi si sovrappongono e le domande si moltiplicano: chi era davvero Venera? Perché è stata rinchiusa? Perché nessuno ne ha mai parlato? E soprattutto: cosa si eredita da chi è stato cancellato? In questo continuo rincorrersi di specchi e silenzi, lo stile di Terranova si fa cangiante, intimo e letterario ma mai indulgente. Ogni frase ha il peso della scoperta, ogni parola sembra uscire da una stanza rimasta troppo tempo chiusa.
Il fulcro del romanzo è proprio il rapporto viscerale, quasi medianico, tra Nadia e la bisnonna. Un legame che si riattiva nel momento in cui la scrittrice si ritrova a sua volta madre, a domandarsi quale lingua tramandare a sua figlia, quale verità scegliere tra quelle possibili. E così, mentre cerca le tracce di Venera tra i fascicoli dell’ospedale psichiatrico, Terranova finisce per trovare frammenti di sé, della propria identità di donna e narratrice.
Il libro si chiude come era cominciato, sulla soglia della Villa Mandalari. Ma questa volta non è più un sogno. Nadia è lì davvero, quasi un secolo dopo, a osservare i muri scrostati di quel luogo che ha inghiottito e cancellato tante vite. Quando ne esce, con passo lieve ma deciso, non ha trovato tutte le risposte, ma ha riportato alla luce una storia che le appartiene, e che ora appartiene anche a noi.
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