Esclusiva

Giugno 17 2025
A Gaza non si può più parlare d’amore

A Gaza, prima della guerra, i matrimoni duravano 48 ore. «Era una grande festa. Il rito si svolgeva in due giorni: la prima notte, la Henna Night, era dedicata alle famiglie degli sposi, che festeggiavano separatamente. La madre dello sposo dipingeva con l’henné il volto della sposa, simbolo di bellezza e fortuna. Il giorno dopo si svolgeva la cerimonia, seguita da un banchetto con parenti e amici» racconta Sami Abu Omar, cooperante palestinese che oggi vive in una tendopoli nella Striscia di Gaza.

L’elemento più distintivo delle celebrazioni era lo zaffe, la marcia nuziale: una processione animata da cantanti, musicisti, ballerini e invitati che accompagnavano lo sposo fino alla casa della futura moglie, alla chiesa o alla moschea.

Oggi, di quelle tradizioni, resta poco. Negli ultimi due anni, i festeggiamenti si sono ridotti al minimo: il matrimonio è diventato più un gesto di resistenza che di celebrazione.

«Dall’inizio della guerra ho partecipato a due matrimoni. Tre mesi fa si è sposata mia cugina, ma la sua è stata una festa piccola, molto diversa da quelle di una volta» racconta Abu Omar.

Chi ha scelto di sposarsi lo ha fatto per cercare un senso di stabilità, per non lasciarsi paralizzare dalla paura. Ma la guerra non distrugge solo case e infrastrutture: mina anche le relazioni più intime e fondamentali. A Gaza, molti matrimoni sono stati messi a dura prova dal conflitto, e le storie di separazione e divorzio sono in aumento. Le pressioni psicologiche, il panico quotidiano e la mancanza di spazio e privacy nei campi profughi esasperano i conflitti preesistenti, spingendo molte coppie alla rottura.

Sami al Ajrami, giornalista palestinese, ha raccontato per oltre un anno, attraverso il suo diario quotidiano pubblicato su la Repubblica, come le vite dei palestinesi siano state stravolte dal conflitto. Ha parlato della perdita dell’intimità, della frattura nei legami familiari e delle trasformazioni imposte dalla guerra.

Tra le storie che ha raccolto c’è quella di Mariam Al-Sayed, una donna di 26 anni sopravvissuta al cancro, che ha dovuto affrontare la dissoluzione del suo matrimonio, distrutto dalla crescente violenza del marito durante la guerra. Quando lui ha deciso di chiederle il divorzio, Mariam si è ritrovata sola, senza soldi, senza vestiti e con due bambini piccoli da proteggere.

«Sono rimasta scioccata quando mio marito ha deciso di divorziare» racconta Mariam. «Ma devo sopravvivere: cerco rifugio tra le tende, lotto per tenere i miei figli al sicuro e per superare le ferite psicologiche.»

Il conflitto ha trasformato il loro legame in un dramma quotidiano di violenza e paura, costringendo molte persone a prendere decisioni dolorose ma necessarie per la propria salvezza e quella dei propri cari.

Al Ajrami ha anche raccontato quanto l’intimità sia diventata una merce rara nella Gaza dilaniata dalle bombe. La maggior parte degli sfollati vive in tende affollate, dove uomini e donne sono separati.

«Non c’è spazio per l’intimità, non si possono avere rapporti sessuali» spiega Sami. Molti cercano di affittare stanze o case per poter stare soli, ma i pochi alloggi disponibili hanno prezzi dieci volte superiori al normale. La mancanza di una vita coniugale normale è una frustrazione diffusa, che rischia di lasciare un segno profondo sulle relazioni e sulla società.

Eppure, da quando c’è stato il cessate il fuoco, la situazione non è migliorata. «Durante la guerra, le persone tendono a fare l’amore per creare vita, per continuare a vivere e sopravvivere. È qualcosa che dona speranza per il futuro» spiega Al Ajrami. Ma con l’insediamento del nuovo governo statunitense, non c’è più spazio per parlare di amore: «Da quello che sento dalle ragazze e da ciò che seguo, molte relazioni sono andate in frantumi. Molte persone che avevano pianificato il matrimonio e immaginavano di costruire una vita con la persona amata si sono dovute separare.»

E insieme alle relazioni, anche i sogni si infrangono: «Stiamo parlando di almeno due terzi, se non tre, della popolazione di Gaza che non ha più una casa, un luogo dove vivere. Ora la guerra è finita, ma anche il futuro sembra svanito.»

Non c’è modo di progettare un domani. «Io spero di morire prima di vedere Gaza ridotta come vorrebbe Trump. Non c’è spazio per pensare alla costruzione di una vita. Nessuno è in grado di costruire una nuova casa, e nessuno può nemmeno sposarsi in una tenda, come accadeva durante la guerra, perché allora si pensava fosse una condizione temporanea».

La percezione adesso è che sia una situazione permanente, e che ci vorrà molto tempo prima che queste coppie possano avere una casa dove vivere, soprattutto con la minaccia di un ulteriore sfollamento da Gaza: «Io ho 57 anni, la mia vita l’ho trascorsa a Gaza, le persone che amo, i miei fratelli e sorelle e mia madre, sono lì. Non mi potrò ricostruire una vita altrove. La speranza è svanita, i sogni sono infranti, e ora le persone vivono con la consapevolezza di un futuro incerto, sospesi in una realtà segnata dalla mortalità» conclude Al Ajrami.