Esclusiva

Giugno 17 2025.
 
Ultimo aggiornamento: Giugno 18 2025
Gianfranco Fini: «Due pacchetti di sigarette» per abbandonare il passato

Gianfranco Fini dagli anni di piombo alla svolta di Fiuggi, il rimpianto di Alleanza Nazionale e Meloni che «ha ridato una casa comune alla destra»

La prima tessera nel ’69 a Bologna «per l’anticomunismo» e le immagini dei carri armati sovietici a Praga che «stroncavano il desiderio di libertà di un popolo». E perché nei cinema era uscito Berretti verdi, film filoamericano sulla guerra in Vietnam, con John Wayne protagonista, «un mito per me diciassettenne». Gli extraparlamentari di sinistra facevano i picchetti per impedire che le persone lo vedessero e «a me infastidiva che cercassero di imporre la loro opinione a tutti». Il trasferimento a Roma e la politica prima nella sezione del Fronte della Gioventù (Fdg) di Monte Verde Vecchio e poi quella di Sommacampagna. I primi ruoli come responsabile della formazione per insegnare spirito comunitario e militanza a destra, «anni bellissimi». Un mondo diverso dove «un ragazzo di destra frequentava una ragazza di destra, c’era un forte senso di quello che chiamavamo cameratismo». Poi il militare, la laurea e il praticantato al Secolo d’Italia, il quotidiano del Movimento Sociale Italiano (Msi): «Toccavo il cielo con un dito». Nel giugno ’77 Almirante, segretario del Msi, lo sceglie come capo dei giovani tra una rosa di nomi fatta dall’assemblea giovanile: «Girai l’Italia decine di volte. Erano gli anni di piombo».

Pochi mesi dopo che diventa segretario del Fronte, avviene la strage di Acca Larentia. Cosa è accaduto quella sera? Chi faceva politica come viveva gli anni di piombo?

Arriva la notizia che hanno ucciso Francesco Ciavatta e Franco Bigonzetti, due nostri militanti. Corriamo tutti lì. Il sangue era ancora per terra. Un cameraman, in buona fede, butta la sigaretta. Si spegne nel sangue di uno dei due ragazzi. La nostra reazione fu incendiaria. I carabinieri lanciarono lacrimogeni. Il loro capitano perse la testa, tirò fuori la pistola e sparò ad altezza uomo. Stefano Recchioni, che era di fianco a me, morì sul colpo. Io fui colpito da un candelotto al ginocchio. C’era paura ma tanta rabbia. Non erano i primi che venivano uccisi. Erano anni in cui giravano pistole, eroina, c’erano soggetti provocatori, servizi segreti deviati. Chi li deviava? Era uno stillicidio quotidiano. Si aprivano le indagini ma non si trovava mai il colpevole. Tra noi dicevamo “Lo Stato è il participio passato del verbo essere”. Ci sentivamo stranieri in patria. Lo slogan della sinistra extraparlamentare era “uccidere un fascista non è un reato”. Il clima era avvelenato.

Da poco hanno riaperto le indagini per due militanti del centro sociale Leoncavallo, Fausto e Iaio

È giusto trovare i colpevoli per tutti gli assassinati in quei tragici anni. Da Mancia a Verbano, uno di destra e uno di sinistra. Non c’è ancora una memoria condivisa ma dei momenti condivisi. Penso a Sandro Pertini, presidente della Repubblica e leader della Resistenza che va a trovare Paolo Di Nella, militante del Fdg, in coma perché sprangato da estremisti di sinistra.

Nell’84 Almirante va alla camera ardente di Berlinguer. Quale fu la reazione?

Da segretario giovanile, gestivo il servizio d’ordine interno. Se Almirante si muoveva, chiedevo se avesse bisogno, oltre la scorta della polizia, anche di qualche ragazzo. Muore Berlinguer e chiedo al capo segreteria se ci fosse bisogno. “No, sta a casa”. Ero nella sede di Via Quattro Fontane. Arriva il capo ufficio stampa e mi dice “Almirante è alle Botteghe Oscure da Berlinguer”. Era andato con la sua 112 insieme a Romualdi. I nostri giovani chiesero perché avesse reso omaggio “al capo dei comunisti”. Andai da lui. Mi ero preparato il discorsetto. Mi fermò subito: “Hai visto l’ultimo comizio di Berlinguer? Stava male ma ha voluto finirlo lo stesso. Si è sacrificato per il suo popolo”. Citò poi una frase del poeta Monti: “Oltre il rogo non vive ira nemica”. Lo dissi ai giovani che capirono. Quando morì Almirante io ero segretario del partito il centralinista del Pci, senza salutare, mi chiama: “Fini, c’è il compagno Pajetta”. Me lo passa: “Fini, devo mettermi in fila anch’io oppure mi riceve qualcuno per rendere omaggio ad Almirante? Preferirei la seconda ipotesi”. Venne con Nilde Iotti.

Nell’87 diventa segretario del Msi. Una scelta che sorprese molti. Perché Almirante scelse lei? Qual erano i rapporti con l’ala rautiana?

Almirante, per salute, non se la sentiva più di guidare il partito. Ci aspettavamo un nome poco più giovane di lui.  Rauti ci pensava ma le sue posizioni non facevano dire ad Almirante “Da domani sei il segretario”. L’Msi lo avevano fatto i reduci della Repubblica Sociale. Lo slogan del ’46 era: Non rinnegare non restaurare. Non rinnegavano la loro giovinezza ma accettavano la democrazia. Almirante in privato mi disse che bisognava saltare quella generazione, la destra doveva guardare al futuro più che pensare al passato. I rapporti con i rautiani erano polemici ma Rauti non era un nostalgico. Il suo motto era “andare oltre”, teorizzava lo sfondare a sinistra. Affascinava. In direzione, però, non votavano mai i miei documenti. L’Msi riempiva le piazze ma non aveva potere. Solo 4 comuni con meno di cinquemila abitanti. Eppure, facevamo discussioni di ore su aggettivi per documenti che leggevamo solo noi. Una volta i partiti erano partiti.

Il 27 gennaio 1995 lei dice al congresso di Fiuggi: «Usciamo dalla casa del padre con la certezza di non fare più ritorno». Come ci si arriva e le chiedo se ha un ricordo particolare di quel giorno?

La dissi a braccio. C’erano donne e uomini che conoscevo da 20 anni che piangevano. Finiva una comunità totalizzante. Al tempo stesso c’era gioia per la sfida. Cercavo di capire i pensieri dagli sguardi. La destra diceva: “Abbiamo una cultura di governo, guardiamo avanti, non siamo nostalgici del passato “. Non tutti accettarono. Rauti mi accusò di essere il traditore dell’idea. Ma Alleanza Nazionale nasce nelle urne, prima di Fiuggi. Cade il muro di Berlino e inizia Tangentopoli. L’Msi aveva da sempre due bandiere: l’anticomunismo e la lotta alla partitocrazia. Diventiamo credibili. In più mi candido a Roma. Perdo ma il mio partito al ballottaggio prende il 47%. Altri con la tessera dell’Msi in tasca, vengono scelti dai loro concittadini come sindaci. Non c’è nessuno sdoganamento. Le merci vengono sdoganate, non le idee. Di quel giorno ricordo che ho fumato due pacchetti di sigarette e la pressione psicologica molto molto forte. C’era tutta la stampa internazionale. Il mondo ci guardava.

Nel 2003 va in Israele. Repubblica titola: “Fini: il fascismo è stato il male assoluto”. Lo disse davvero?

No. Scrissi sul libro dello Yad Vashem, il museo dell’Olocausto, che il fascismo fu complice dello sterminio, cioè del male assoluto. Non smentii, il concetto è equivalente. Andai in Israele dopo lunghi colloqui privati con il rabbino Toaff. La comunità ebraica disse al rabbino capo di Israele: “È sincero, la svolta è autentica”.

Dalla svolta al governo con Berlusconi. Momento migliore e peggiore?

Migliore quando mantenevamo le promesse. Il peggiore quando perdevamo. All’opposizione si doveva, a volte, deporre la spada e usare il fioretto. Noi evitavamo di evocare i comunisti. Berlusconi no, in questo era maestro. Così però li autorizzava a chiamarci “fascisti”.

La nascita del Pdl fu un errore? Non pensa ci fu un accanimento nei suoi confronti?

Dissi a Berlusconi: “Ma che siamo alle comiche finali?”. Poi accettai il Pdl. Lo scioglimento di AN è l’errore che non mi perdono. La natura di Berlusconi era del capo che decide. Per lui comandare e governare erano sinonimi. Nel partito unico si dice “Si fa così perché lo dico io”. Poi i nodi vengono al pettine. Esperienza finita con il famoso “Ma che fai, mi cacci?”. Mi ha ascoltato e mi ha cacciato. Rino Formica, socialista, disse: “La politica è sangue e merda”. Berlusconi non accettava la mia contestazione pubblica così plateale. Fui dichiarato incompatibile. Lo seppi dalle agenzie. L’accanimento l’avevo messo in conto.

Meloni è stata la prima donna presidente del Consiglio. Se lo sarebbe mai aspettato?

Ha fatto un miracolo. Quando fondò, con Ignazio La Russa e Guido Crosetto, Fratelli d’Italia pensai: “Ma dove vanno?”. Invece è stata bravissima. Rifiutò di appoggiare il governo Draghi e il canto delle sirene: “È un governo di unità nazionale”. Ha fatto un’opposizione tenace ma consapevole. Il passaggio delle consegne tra Draghi e Meloni è british. Ha il merito di aver ridato una casa comune alla destra.

La scelse lei come vicepresidente della Camera dei deputati?

Era capo dei giovani. Viene eletta alla Camera perché era stata messa in una posizione in lista favorevole. Perdiamo le elezioni ma indichiamo un vicepresidente. I colonnelli si fecero tutti avanti. Io scelsi lei. Era una scelta di rottura. Quando lo comunicai, il mio capo della segreteria disse: “A Gianfrà, so usciti tramortiti”. A me dicevano: “Bell’idea”. Fuori la stanza invece: “Ci ha fregato pure stavolta”.

Che ne pensa del dibattito fascismo-antifascimo?

Strumentale. La sinistra ogni volta che perde le elezioni, per fortuna capita spesso, lancia l’allarme democratico. Dopo Fiuggi, continuare a sostenere che la destra sia filofascista o neofascista, è una colossale menzogna.